Blind love

Izuku Midoriya era un uomo semplice.

Un professore di letteratura, trent'anni appena compiuti, nulla di speciale, nessun successo straordinario. Il suo potere - se così si poteva chiamare - era la gentilezza: quella tenacia silenziosa con cui si prendeva cura dei suoi studenti, delle piante sul balcone, e della madre anziana che accudiva una sera sei e una no.

Aveva una voce pacata, mani leggere di chi non ha mai imparato a stringere i pugni, e occhi verdi come l'erba quando non è stata ancora calpestata.

E amava. Amava in un modo che faceva male.

Da quando era bambino. Da quando aveva sette anni e, con le ginocchia sbucciate, guardava Katsuki Bakugō giocare a calcio nel campetto dietro casa.

Katsuki era tutto ciò che lui non era: bello da far male agli occhi, sicuro di sé, idolatrato da chiunque. Bastava uno sguardo, e si aprivano le bocche. O le porte. O le gambe.

Diventò un modello prima dei vent'anni: in prima pagina sulle riviste, col viso e il corpo scolpito come una statua greca, gli occhi vermigli, ardenti come brace e le labbra sempre piegate in quel mezzo sorriso spietato.

Aveva avuto uomini e donne. Storie brevi, sessuali, fatte di carne e consumo.

Eppure, ogni tanto tornava da Izuku.

Non per amore.
Ma per ridere.
Per vedergli che faccia metteva quando si spogliava nella sua cucina e si faceva un panino col prosciutto, lasciando l'odore di dopobarba ovunque.

Per divertirsi a raccontargli dettagli sessuali di altri, guardandolo mentre stringeva i pugni sulle cosce.

Per farsi massaggiare i piedi, ordinare cibo, scoparlo e poi fuggire via con la pizza ancora mezza intera sul tavolo.

«Dio, quanto sei patetico, Deku. Davvero mi ami?», rideva, mentre si allacciava i jeans. «Lo sai che sei l'unico coglione che non mi chiede nemmeno di venire? Ti basta guardarmi, vero? Ti piace essere uno zerbino, ah?»

Izuku non rispondeva.

Guardava.

Annusava l'aria: l'odore di Katsuki sulla sua pelle, nella sua stanza, dentro le lenzuola anche se non ci aveva mai dormito davvero.

Per Izuku, quell'amore era tutto.

Per Katsuki, era solo un modo perverso per gonfiare il proprio ego.

«Dio... Sei come un animale. Torni sempre, anche quando ti prendo a calci.»

E gliene aveva dati, di calci. Letteralmente.

Una volta, Izuku finì in ospedale con due costole incrinate.

Caduto dalle scale, disse all'infermiera in accettazione  e non fece mai denuncia.

«Non è colpa sua. Stavo cercando di impedirgli di andarsene... sono scivolato.», mentì a se stesso quella e altre volte, con la voce spezzata, il naso fratturato e i denti allentati.

Nessuno capiva perché lo faceva, perché lo lasciava entrare o perché lo chiamava ancora "Kacchan", come da bambini.

Ma l'amore non ha senso.

L'amore cieco ancora meno.

E l'amore cieco, quando è unilaterale, è una forma raffinata di tortura.

Izuku viveva per i piccoli resti, per le briciole: un messaggio alle 2 di notte, una carezza sul collo mentre si chiudeva la lampo dei pantaloni, il peso del corpo di Katsuki addosso a lui per pochi minuti, senza mai baciarlo.

A volte, dopo che Katsuki se ne andava, lui finiva per tagliarsi lievemente il petto con uno spelucchino da frutta, come se quel dolore servisse a sentirlo un po' più vicino e lui sanguinava piano, nella vasca, mentre stringeva a sè il cuscino ancora intriso di colonia.

Una sera, però, qualcosa cambiò.

Katsuki arrivò ubriaco, più cattivo del solito.

Si sedette sul divano, mangiò le sue patatine, accese la TV e disse, così, senza nemmeno guardarlo: «Sai Deku? Se mi ami davvero... voglio qualcosa di grosso. Voglio una prova. Una vera.». Poi si girò, e lo fissò negli occhi con uno sguardo tagliente. «Sai che c'è? Portami... il cuore di tua madre.»

Lo disse con lo stesso tono che si usa per chiedere una birra, o il telecomando.

La frase cadde tra di loro come veleno, come qualcosa di corrosivo, come l'acido per sturare i tubi.

Izuku restò immobile, le mani sulle ginocchia, la bocca socchiusa come quella di un bambino che non sa se sta sognando o morendo.

Il biondo si allungò di più sul divano, sbuffando, e aggiunse, con un tono più secco: «Guarda che dico sul serio. Domani vai da lei, no? Ecco: portami il suo cuore. Voglio darlo ai miei cani. A loro piace la carne calda.», fece un sorrisetto. «La tua vecchia sarà ancora utile così, no?»

Izuku annuì, non per sottomissione, ma per adorazione.

Cosa poteva desiderare di più, se non la possibilità di dimostrare il proprio amore in modo assoluto?

Dare la vita di qualcun altro per un dio crudele.

La propria madre, la sola che l'aveva amato incondizionatamente, diventava ora l'ultima offerta sull'altare di un altro amore.

- - -

Dopo aver fatto lezione aveva scelto scelto in una ferramenta a buon mercato un coltello da disosso, affilato quel tanto che basta per il suo scopo.

Gli tremavano le dita, ma non per paura. Per eccitazione.

La mente era un turbine di immagini: il volto di Katsuki che sorride, che dice "bravo", che lo accarezza con la lingua sulla guancia, che lo ama... che lo ama, che finalmente lo ama.

Poi il volto di sua madre, Inko, sempre lì. Sempre pronta a fare il tè, sempre pronta a perdonarlo, a chiedere "quando ti sposerai?", "come va il lavoro?", "perché hai gli occhi così rossi?"

Izuku si morse il palmo e si alzò e uscì.

L'appartamento di sua madre era a venti minuti a piedi e ci arrivò camminando sotto la pioggia, senza ombrello, il coltello nella tasca interna del giaccone.

Il cuore già contratto, concentrato, fissato su un'idea sola: voleva portarglielo caldo.

Inko aprì sorridendo al figlio come faceva, una sera sì e una no. Indossava la vestaglia a fiori, quella che sapeva di lavanda e vecchi ricordi dolci e teneri.

«Tesoro! Ma che... che ci fai lì? Sei tutto fradicio! Entra! Entra! Vatti ad asciugare che ti preparo una zuppa bella calda!»

Izuku sorrise. «Sì, mamma. Una zuppa... sarebbe perfetta.», ed entrò. Si tolse le scarpe, come sempre, ma non obbedì alla donna, né si sedette subito a tavola. Rimase in piedi, i vestiti e i capelli  ancora umidi.

La osservò muoversi.

Era lenta ma ordinata, metodica come sempre. Le dita tremavano leggermente, e le nocche portavano la memoria dell'artrite precoce. Ma il cuore - lui lo sapeva - il cuore era sano. Resistente. Forte.

Lei si voltò per prendere un barattolo di spezie.

In quell'istante, lui si avvicinò.

Le dita scivolarono dentro la manica, afferrarono il manico del coltello che aveva portato con sé.

La lama, fredda e affilata, aderiva bene al palmo, come se fosse nata per quel gesto.

Camminò in silenzio dietro di lei, il battito che accelerava, non per paura, ma per concentrazione.

Il primo colpo fu goffo: mosse il braccio e il coltello penetrò al di sotto della scapola, poco sopra il rene sinistro.

La lama incontrò una prima resistenza: uno strato elastico di carne tesa che opponeva una forza strana, come se cercasse di respingere il metallo.

Poi cedette di colpo: la fibra muscolare si aprì, densa, calda, inondata da un calore che si sparse immediatamente sulla mano.

Il sangue, all'inizio, scese lento. Poi accelerò, colando in piccoli rivoli densi lungo la vestaglia.

Inko si piegò in avanti con un gemito più simile a uno stupore che a un grido e si voltò di scatto.

Le spezie le caddero di mano. Il barattolo rotolò sotto il tavolo.

Izuku non parlò.

Strinse l'impugnatura, ruotando appena la lama per spezzare le fibre interne. Avvertì il tendine cedere, un movimento liquido e umido.

Il corpo di sua madre vacillò e lei si appoggiò al bordo del piano cottura, lasciando una scia scura sulle piastrelle chiare.

Però era ancora viva, gli occhi pieni di domande, ma non di paura. «Bambino...», mormorò lei, quasi sussurrando. Una voce spezzata, incredula. Si voltò appena, e vide il volto di suo figlio, pallido e calmo, con una piega dolce sulle labbra. «...che cosa stai facendo?»

Lui non rispose, ma si limitò a rigirarla di peso e ad affondare di nuovo il coltello sul fianco, quasi all'altezza del seno.
Mirato.
Deciso.

Le costole opposero una resistenza più rigida. Il metallo urtò l'osso, scivolando di lato e per questo gli fu necessario premere con forza.

Inko tossì. Un sussulto. Una manciata di sangue le colò dalla bocca, fine e schiumoso, macchiandole il colletto della vestaglia.

Izuku la sostenne, le parlò con dolcezza, come si fa con chi ha appena fatto un brutto sogno. «Va tutto bene, mamma. Non ci vorrà molto.»

Si inginocchiò accanto a lei, che scivolava lentamente lungo il mobile, il busto tremante, le gambe già molli.

Ma un colpo solo non bastò. Ce ne vollero cinque. Forse sei.

Le costole erano dure come sbarre. Le mani di Izuku scivolavano, mentre il coltello apriva e strappava, un macellaio inesperto che cercava di aprire uno scrigno del tesoro.

Il suono che ne venne fu grave e viscido, come di carne sottovuoto che si lacera a fatica.

La lama affondò per l'ultima volta nel torace e il battito del cuore si fece udibile: una vibrazione sorda contro il metallo.

Lasciò a terra il coltello e poi la adagiò a terra, prima che, con un gesto preciso, infilasse le dita di entrambe le mani nella ferita. Le costole gli graffiarono le nocche nel farlo.

Doveva divaricarle. Sentì il rumore secco dell'osso che si spezzava contro la sua forza, e il suono più pieno, carnoso, della cavità che si apre.

Il cuore era lì e lo sentiva con i polpastrelli, ancora caldo, avvolto da un tremore vitale che lo faceva pulsare, fragile e insopportabilmente umano.

Lo afferrò e le pareti gli aderirono alle dita, vischiose.

Tirò con cautela, poi con forza. I vasi si spezzarono uno a uno, ognuno con un piccolo scatto elastico che gli fece vibrare i polpastrelli.

Alla fine, lo tenne con entrambe le mani e lo torse.

Il sangue schizzò sulla tappezzeria.

Un fiotto gli entrò perfino in bocca: era caldo e sapeva di ferro.

Alla fine, il cuore venne via.

Quando lo ebbe tra le mani, gli sembrava bello come un frutto maturo.

Pesante. Morbido. Palpitava ancora, appena, un ultimo residuo di vita. Caldo, pulsante. Perfetto.

Izuku cercò con le mani insanguinate nella dispensa e, alla fine, lo infilò in un contenitore di plastica ermetico e chiuse il coperchio con precisione.

Poi si voltò e guardò sua madre giaceva di lato, la testa contro il mobile della cucina, gli occhi aperti.

Il sangue si stava allargando, lento e sembrava formava un fiore sotto di lei, rosso e muto.

Non sembrava morta.
Sembrava solo sorpresa.
Come se stesse ancora aspettando che lui si sedesse a tavola.

L'acqua bolliva nella pentola, il vapore appannava il vetro della finestra. Il profumo della zuppa si mescolava a quello del sangue.

Riprese il coltello da terra e chiuse il fuoco prima di uscire dall'appartamento senza voltarsi, nel più completo silenzio, con il contenitore sotto il giaccone e il coltello in tasca.

Le mani sporche, il cuore ancora caldo, come gli era stato chiesto.

Il dono perfetto.

- - -

Pioveva ancora, se possibile, più forte di prima. L'asfalto era un fiume di luci e riflessi.

Izuku camminava come in trance, col giaccone sporco di sangue e il contenitore stretto al petto, come fa un bambino con il peluche preferito.

L'autobus non arrivava e, forse, era meglio così.

Aveva bisogno di tempo. Per non pensare, per non realizzare che il corpo di sua madre era ancora lì, con la cena sul fuoco, e il sangue che si allargava sul pavimento.

Gli occhi cominciavano a bruciare, ma non dal pianto, perché, in fin dei conti,  non era riuscito a versare nemmeno una lacrima, ma per la tensione.

Aveva paura.

Non di essere scoperto, ma di non aver fatto abbastanza per Kacchan.

L'appartamento di Katsuki era al dodicesimo piano: una parete era solo vetro, con una vista mozzafiato sul niente.

Dentro veniva diffusa musica elettronica a basso volume, un'aroma pungente del profumatore per ambienti preferito di Katsuki: cenere e gelsomino.

Izuku bussò.
Una volta, due. Alla terza, la porta si aprì.

Katsuki era in boxer, la pelle umida, un asciugamano gettato con noncuranza sulle spalle.

Allungò una mano e gli prese il mento con decisione, alzando il volto verso di lui, notando le guance arrossate e sporche, gli occhi allucinati: «Cazzo, ma che faccia hai? Sembri un tossico in crisi d'astinenza...»

Poi notò il contenitore che Izuku stava estraendo dal cappotto. E sorrise. Uno di quei sorrisi che non arrivano mai agli occhi. «Hai portato qualcosa per me? Che carino.»

Izuku non parlava, non ci riusciva.

Entrò e posò il contenitore sul tavolo di vetro al centro della sala con una cura quasi liturgica.

Poi lo aprì e l'odore lo colpì in faccia come un cazzotto: rame, viscere, e quel tanfo dolciastro della morte ancora fresca.

Il cuore giaceva lì, livido, ancora umido che sotto le luci sembrava pulsasse ancora.

Un lavoro imperfetto, ma autentico.

Katsuki si avvicinò, lo guardò, si chinò per annusarlo.
Poi si raddrizzò. «Questo è il cuore di tua madre?»

Izuku annuì, senza staccare gli occhi dal tavolo, le mani ancora rosse, le unghie incrostate di sangue secco

Un attimo. Solo un attimo di silenzio. Poi la risata.

Una risata piena, sporca, lanciata come un rigurgito violento mentre Katsuki si teneva lo stomaco con le braccia. «Dio, sei davvero malato, Deku! Hai davvero fatto una cosa del genere?» e lo guardava come si guarda un insetto dentro un barattolo. «Non pensavo l'avresti fatto per davvero... mi hai tolto ogni dubbio: sei un povero stronzo senza dignità.»

Izuku si irrigidì. Le spalle curve, il respiro rotto.

Nel petto, dove prima c'era il fuoco della soddisfazione, ora si apriva un cratere freddo. «Ho fatto... quello che mi hai chiesto. Ho fatto tutto... per te.»

«Per me?» Katsuki fece un passo avanti. Gli sollevò ancora il mento con due dita fredde e umide. «Ma chi ti ha detto che io ti voglio davvero? Tu mi diverti. È diverso.», e poi lo spinse via con un gesto sprezzante. «Pensavi che bastasse un cuore per farmi cambiare idea? Pensavi che mi sarei innamorato perché mi hai portato un pezzo di carne dentro una scatola da pranzo?». Scrollò le spalle. «Sai che ti dico? Non è nemmeno il cuore. È solo un organo morto. Non ci sento niente. Nessuna fatica. Nessuna vera prova d'amore

Izuku rimase lì, pietrificato.

E fu in quel momento che cominciò a spezzarsi.

Non per l'umiliazione, non per il disgusto. Ma perché dubitò: per la prima volta, dubitò che il suo sacrificio fosse stato abbastanza e l'immagine del volto di sua madre, livido e sorpreso, riemerse.

Il rumore delle costole che si spezzavano.
Il calore viscido del cuore nelle sue mani.
Tutto per ricevere... niente.
Solo un sorriso crudele, una risata. Un vuoto.

Poi, con un tono più morbido,ma non meno velenoso, Katsuki aggiunse: «Se vuoi fare colpo, devi fare di più, Izuku. Fammi vedere che soffri per me. Fammi vedere che mi ami davvero.», disse, fissando il cuore sul tavolo come si guarda una bistecca troppo cotta.

«Mi serve qualcos'altro. Qualcosa di vero. Qualcosa che dimostri che ci sei ancora dentro quella tua testa di cazzo, capito?»

Si sedette di fronte a lui e si accese una sigaretta. La prima boccata lasciò una scia di fumo tra loro.

Izuku aveva ancora le mani rosse, il sangue seccato nei solchi della pelle.

«Se mi vuoi bene davvero...» disse Katsuki, con la voce più calma, quasi dolce. «Allora tagliati le vene. Quelle dei polsi, tutte e quattro. Lo faresti questo sacrificio per me, mh?»

Izuku lo guardò e , per la prima volta, non rispose subito.

Nella sua testa si aprì uno spazio bianco, un vetro rotto che rifletteva solo pezzi.

Sua madre.
Il cuore.
Kacchan.
Il dolore.
Il coltello.
Sua madre.

Kacchan.

La frase: "se mi vuoi bene".

Era una preghiera.
Era un ordine.
Era amore.

- - -

Il bagno era silenzioso.

Piccolo, disadorno. I toni chiari rendevano il sangue ancora più violento al pensiero. Il neon sullo specchio sfarfallava piano, come un occhio che si rifiutava di chiudersi.

Izuku si tolse il giaccone con movimenti lenti.
Lo appese al gancio dietro la porta.
Poi si sedette sul bordo della vasca, lasciando le gambe penzolare.

Il coltello,  lo stesso con cui aveva ucciso la madre, era già nella sua mano.

Il metallo aveva memoria. Portava ancora impressi i segni della pelle della donna, i nervi tagliati, il cuore strappato.

Ora avrebbe inciso anche lui.

Si guardò i polsi.

Le vene si vedevano appena, azzurre e sottili sotto la pelle chiara e, in quella luce fredda sembravano quasi fragili. Innocue.

Inspirò. Chiuse gli occhi e parlò. Non a voce alta, ma nella sua testa. A se stesso e a Kacchan.
"È giusto. Un cuore... è solo carne. Ma questo... questo sono io. Sono io. E se lui... se vede quanto fa male... forse allora... capirà. Mi vedrà davvero. Mi amerà. Almeno un po'."

Riaprì gli occhi e posizionò la punta della lama sul polso sinistro.

Non tagliò di colpo: cominciò  premere lentamente, fino a sentire la prima resistenza.

La pelle si tese, fece attrito e si aprì con uno sforzo sottile ma deciso, come una guarnizione che cede sotto pressione.

Sotto, il minuscolo strato di derma. Poi il muscolo. Poi la vena.

Quando la lama vi scivolò dentro, un'ondata di calore lo colpì, una fitta pura, verticale, che partiva dal polso e si irradiava fino alla spalla.

Il sangue uscì subito, ma non schizzava: scendeva, lento e denso, tracciando una linea tra il braccio e il pavimento, come un pianto, un fluire denso, caldo, dolorosamente intimo.

Un filo rosso, un legame.

Izuku emise un suono strano, simile a un singhiozzo e un orgasmo.

Era bello.

Tremò, certo, ma non si fermò.

La mano destra fu più difficile.

Il manico del coltello era scivoloso, appiccicoso.

Lo afferrò con la sinistra già insanguinata, facendo leva con l'avambraccio.

Il secondo taglio fu più netto: entrò deciso, una lacerazione che gli lasciò una sensazione di calore immediato, quasi piacevole.

Il sangue ora fluiva da entrambe le braccia, con ritmo irregolare.

Gocciolava sulle ginocchia.
Colava tra le dita.

Il dolore era accecante.
E liberatorio.
E sacro.

Toccava le piastrelle come una preghiera silenziosa.

Il sangue colava sui fianchi della vasca come vernice troppo densa.

Sporcava il pavimento.
Imbrattava i suoi calzini.

Ogni goccia, un "ti amo".
Ogni fitta, un inno a quel Dio crudele che gli aveva chiesto una nuova prova d'amore.

Le dita formicolavano.
Il cuore sembrava rallentare, come se avesse bisogno di meno battiti per esistere.
Il mondo si allontanava e le linee delle mattonelle diventavano onde.
Il rumore dell'acqua nei tubi sembrava un canto.
Vedeva colori dove non c'erano.

Da quel momento in poi, la realtà si aprì in due, come si era aperta la carne sotto la lama.

Il soffitto prese a pulsare.
Le pareti respiravano.
Il pavimento era morbido, come pelle viva.

E nel sangue che gli colava addosso, cominciò a vedere volti.

Sua madre.
Un sé stesso bambino.
E poi Kacchan. Ovunque. Nei muri. Nei vetri. Nelle ossa del proprio polso.

Mosse la testa in avanti, il respiro più corto, la vista appannata. E cominciò a sorridere.

Udiva la voce di Katsuki, non vera, ma bellissima.

"Se mi vuoi bene..."

Dopo un tempo che sembrò secoli, si alzò.
«Amore...» sussurrò. «Io... vengo da te.»

Barcollava, ma ce l'aveva fatta.
Era pronto per tornare da lui.
Così si trascinò fino al salotto, lasciando orme umide e rosse sul pavimento chiaro, una scia vermiglia  come quella degli animali feriti.

Izuku non sentiva più le mani: il sangue colava lungo le dita, gocciolando ritmico sulle mattonelle, disegnando curve, vene esterne.

La carne aperta pulsava ancora appena, come se faticasse a decidere se vivere o no.

Ogni passo era un colpo sordo sul pavimento.

Il sangue, lento, lo seguiva come un cane fedele.
Barcollò nel salotto, la vista sfocata, la pelle pallida come cera di una candela accesa a lutto.
Lui passò accanto al tavolo.

Al cuore.

A una sigaretta ormai spenta nel posacenere.

Katsuki era ancora lì.

Sedeva con le gambe accavallate, un bicchiere di whiskey in mano e lo sguardo appoggiato su Izuku come se fosse una crepa interessante nel muro.

Il suo corpo era diventato un'offerta mobile e arrivò a Kacchan con il sorriso più sereno del mondo.
Il volto pallido, le vene aperte, la vita che colava via, tranquilla.

"Guarda. Sono tuo. Lo sono sempre stato."

Il biondo lo guardò con una smorfia.
«Hai fatto anche questo?». Non sorpresa. Non compassione. Ma disgusto. «Cristo, Deku... sei proprio senza fondo.»

Un'altra risata.
Questa volta, più lunga. Più forte.
Rideva davvero. Si teneva i fianchi.

Il volto era pallido, le labbra violacee, gli occhi verdi erano lucidi, quasi ancora più belli nell'agonia.
«Non è abbastanza...?», chiese con voce debole, ma ferma. Come un sussurro perso nella nebbia della ragione.

Katsuki si alzò e fece due passi avanti per guardarlo da vicino. «No.» disse.

La bocca gli tremava, gli occhi si inumidirono mentre continuava a sorridere. Quel sorriso malato, incrostato di lacrime, sangue e fede. La fede cieca di chi ha trovato senso solo nella distruzione. Un senso per qualcun altro. Mai per sé. «Dimmi... cos'altro posso fare... Kacchan... dimmi e lo farò... tutto. Qualsiasi cosa.»

I capelli incollati alla fronte.
Le dita si aprivano e si richiudevano lentamente, come quelle di un neonato che sogna nel sonno... ma lì non c'era sogno. Solo fine.

Gli occhi, socchiusi, cercavano ancora un premio. Una carezza. Un'ultima parola d'amore.

Ma Katsuki non gli concesse nulla.
Si piegò: lo raggiunse a pochi centimetri dal volto.
Gli afferrò le guance con una presa salda della mano destra, le dita premute sugli zigomi, la bocca sporca di sangue che si schiudeva contro il suo palmo.
Gli alzò la testa come si fa con un cane morente.

«Se vuoi davvero dimostrarmelo...» sussurrò con voce era tagliente, quasi dolce, orribilmente dolce. «Dammi la tua ultima prova.»

Lo fissò. I suoi occhi, rubini glaciali, erano due coltelli per la sua anima. «Muori. Davvero. Qui, davanti a me. Tagliati bene, fino a svuotarti. Questa sarà l'ultima prova. Fallo se mi ami sul serio. E io... io allora vedrò di ricambiare.»

Izuku inspirò piano mentre lo udiva ridacchiare.

La sua pupilla si dilatò e un brivido lo attraversò dalla nuca alla spina dorsale, come una mano invisibile che lo accarezzava per l'ultima volta.

Non di paura. Di gratitudine.

Lentamente, si sedette per terra, con la schiena appoggiata al mobile basso del soggiorno, le gambe stese davanti a sé.

Ogni movimento era molle, liquido, come se il corpo fosse già lontano.
Sollevò i polsi davanti al viso, osservandoli come si osservano doni antichi.

Erano rigati, rossi, sporchi, la pelle slabbrata cominciava già a indurirsi sui margini, come fossero fiori carminei appassiti.

Afferrò la lama  che aveva tenuto ciondolante tra le dita.
Il metallo era ormai opaco, punteggiato di marrone scuro.

«Per te...» mormorò. La voce era quasi affettuosa, sincera, e, con un gesto lento, preciso, incise di nuovo.

Un taglio lungo, più profondo e stavolta non tremò.
Stavolta, non c'era più bisogno di esitazione.
Sentiva il cuore battere come un tamburo lento e debole.

La lama penetrò piano, al pari di un bacio dolce, al pari di una promessa di felicità, col sangue che sgorgava rapido, abbondante, non più un rivolo ma una fontana.

Una liberazione.

La testa di Izuku si reclinò all'indietro.
Un gemito uscì dalle sue labbra, simile a un sospiro di piacere.

Il dolore era puro.
Netto.
Quasi bello.

Ogni secondo che passava, il mondo si sbiadiva, i suoni diventavano più ovattati.

Katsuki sembrava lontano chilometri, eppure era lì, immobile, a fissarlo. A vedere se il topo rideva anche mentre annegava.

Izuku lo fissò fino all'ultimo.

Non piangeva più.
Non chiedeva più.

Sorrideva. Con le labbra viola, la pelle pallida delle guance tirata, occhi lucidi, carichi di amore.

Felice.

Il sangue formò una pozza ampia, scura.
Le dita si rilassarono, la testa gli scivolava di lato e il cuore che rallentava.

Le pareti respiravano, i colori si scioglievano come pittura in acqua.
Il dolore si allontanava, lasciando spazio a una pace assurda, estatica.

Ora mi vedi, Kacchan. Ora valgo qualcosa.

Le ferite ormai gocciolavano come rubinetti dimenticati.
Il petto si sollevò ancora una volta, poi scese.

Moriva e il sorriso gli era comunque rimasto sulle labbra, sporco di sangue, ma puro, sereno.
Contento nella sua pace raccapricciante, come se avesse finalmente trovato ciò che cercava.

Katsuki rise un'altra volta, ma era una risata vuota, meccanica, come un riflesso condizionato. Come il ticchettio di un orologio che non segna più l'ora.

Si passò una mano sul viso e si guardò le dita.
Erano sporche. Non di sangue - quello era tutto per terra - ma di qualcosa di più sottile.

Di colpa, di qualcosa che non aveva nome.

Fece per avvicinarsi, poi si fermò e lo guardò.
Lo guardò per davvero per la prima volta.

Qualcosa dentro lo stava raschiando piano, come se avesse un cucchiaino nel cranio, che grattava e scavava, insistente e subdolo.

Il sangue si stava spandendo sotto il corpo, creando un'aura scarlatta, una corona, il tappeto ormai imbevuto.

Il volto immobile di Izuku lo guardava ancora, anche da morto, con lo stesso amore con cui fino a poco prima lo aveva osservato da vivo...

E per la prima volta, Katsuki non seppe più cosa dire e il silenzio, improvvisamente, non gli piacque.

Non era quello che si aspettava: non c'era sollievo, non c'era trionfo.
C'era solo... solo il silenzio.
Reale.
Definitivo.
Non era più "Deku".
Non era più "lo zerbino, il pupazzo, lo scemo innamorato".
Era un uomo che aveva dato tutto.
Fino all'ultima goccia.
E lo aveva fatto per lui.

Fuori, il vento soffiava di una brezza gentile, che faceva muovere appena le tende candide, un rumore fragile, come un respiro.

Katsuki si sentì stanco di una stanchezza che veniva da dentro le ossa, dalle viscere, dalla parte più infame del cuore.

«Contento...» mormorò. «È morto contento...», e quella parola gli restò in gola.

Si sedette a terra accanto a lui, le ginocchia contro il petto, la guancia posata sulle ginocchia, continuava a guardarlo divenire ancora più pallido, quasi grigio

Non pianse, perché Katsuki Bakugō non piangeva mai, ma qualcosa, dentro, cominciò a scricchiolare.

E allora capì.

Capì che non avrebbe mai più sentito quegli occhi su di sé, che non avrebbe mai più avuto quel silenzio adorante, quella presenza muta e incrollabile.
Che nessuno si sarebbe mai più fatto a pezzi per lui.

E che il suo potere di distruggere era reale.

Aveva ottenuto tutto, ma non gli era rimasto niente, nemmeno una carezza, nemmeno un "ti perdono".
Nemmeno una condanna.

Solo quel corpo.
Solo il sangue.
Solo il silenzio.

E il cuore, quello che Izuku aveva lasciato nella scatola, sembrava guardarli entrambi.

Un testimone muto.
Un trofeo indegno.
Un monito.

Si voltò e vide il suo riflesso sui vetri delle finestre, lontano, solo una sagoma scura contro il riflesso della notte e, per la prima volta, non si piacque.

Per la prima volta, vide qualcuno da odiare.

La città continuava, la vita andava avanti.
Ma nel salotto, tra le tende mosse appena e il profumo d'ambiente che si mescolava al nauseabondo olezzo del sangue, Katsuki restò solo, a fissare il vuoto.

A sentire il vento dolce che veniva dalla finestra che gli raffreddava la pelle e seccava il sangue di chi lui non aveva mai amato e che invece gli era stato devoto fino alla morte.

E provò qualcosa che non sapeva nominare

Forse non era rimorso.
Forse non era colpa.
Forse era solo sgomento.

E una fottuta, irreversibile certezza: l'ultima risata era stata di Izuku.

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