7. I'm the subject of your nightmares

Ormai contavo i giorni con il passare dei miei turni.
Due notti, un riposo, due mattine e due pomeriggi.

Di Dabi non avevo visto nemmeno l'ombra dopo quella breve parentesi di sesso. Sesso impeccabile, se devo dirla tutta. E mi imbarazzavo a pensarci ogni volta per come erano precipitate le cose quella notte.
Sapete come si dice in questi casi? Esatto: "Sedotta e abbandonata".

Ma non gliene facevo una colpa, almeno non completamente.
La colpa era mia che mi ero fatta abbindolare come una ragazzetta.

Yuito-chan mi era stato alla larga il più possibile ed era comprensibile, soprattutto dopo le rispostacce che gli avevo dato durante il nostro primo turno assieme.

Solo quella sera, dopo una settimana, al telefono, avevo avuto il coraggio di raccontargli cosa mi era successo, particolari piccanti a parte.
"Oh! Non mi pare che l'ultimo che hai trovato su PCMax sia tornato a bussare alla tua porta! Non darti pena, tesoro."

Sbuffai nel microfono. «Ho ciò che mi merito, insomma...credo di essere una calamita per i casi umani!»
Camminavo avanti e indietro in guardiola, mordicchiandomi l'unghia del pollice, preda della mia solita ansia.

"Mika-chan ti ripeto di non darti pena. Sei solo troppo buona e ti fai prendere un po' troppo dalle situazioni. Prendila come lezione. Anche io ho incontrato alcuni personaggi inquietanti, te l'ho raccontato no?"
Annuivo, come se lui potesse vedermi. Forse intuiva la mia frustrazione nel far fuggire ogni ragazzo dopo qualche ora di sesso.

«Forse devo semplicemente smetterla, riempire l'armadio di vibratori e la casa di gatti e starmene da sola!»
Lo udii ridere all'altro capo del telefono dandomi scherzosamente della pervertita, facendomi ridere a mia volta.
Lo salutai, decisa a fumarmi la mia meritata sigaretta, degna conclusione di quel quarto d'ora di pausa.

La sua voce si fece seria. "Non sei sbagliata Mika. Non pensarlo mai"

Quando chiusi la comunicazione rimasi per un po' a fissare il mio cellulare.
Yuito aveva sicuramente ragione, ma io non riuscivo a trovare neppure uno spiraglio di luce nella patetica situazione in cui mi trovavo.

Scrollai le spalle e aprii la finestra della guardiola che dava verso il cortile interno della clinica: diluviava e non potevo allontanarmi perché ero da sola in reparto.
Una folata di vento invase la stanza, facendomi rabbrividire, mentre cercavo nella borsa le sigarette.

Cadde a terra un foglietto e lo raccolsi, stupendomi di averlo comunque conservato: lo scontrino spiegazzato con il numero di Dabi era sempre più logoro, ma sembrava aver resistito al casino che avevo nella borsa.

Sorrisi, perché quella mi sembrava una metafora della mia vita.

Non ho idea del perché lo salvai in rubrica in quel momento, senza però avere il coraggio di mandargli un messaggio o fargli una chiamata.

Quando mi poggiai alla finestra, prendendo la prima boccata di fumo, mi sentii subito la testa leggera. La pioggia produceva un rumore rilassante e mi ritrovai ad appoggiarmi con la tempia alla cornice della finestra, godendo della pace momentanea di mezzanotte.

In quel momento un campanello suonò e la lucetta rossa della stanza 315 pulsava sopra la porta della guardiola.

Lanciai fuori la sigaretta e chiusi la finestra. Una lavata alle mani ed ero pronta per andare.





«Himura-san, che succede?», le chiesi con voce gentile; sentivo quel profumo dolciastro della genziana morente mischiato a quello pungente di sudore che veniva dalla donna. Doveva essersi spaventata parecchio.

Mi disse che aveva fatto qualcosa di orrendo, era estremamente agitata, di sicuro per un incubo che le aveva tormentato il sonno.
Mi misi accanto a lei con una sedia e cercai di calmarla come potevo. Sapevo che stava pian piano dismettendo alcuni farmaci e non volevo somministrarle nulla se non necessario.

«Ho rovinato mio figlio...l'ho rovinato a vita per colpa sua...», mi disse poi in un soffio, mentre le accarezzavo una mano, troppo fredda per la temperatura che normalmente avevamo in reparto.

Non la incalzai e la udii piangere sommessamente.
La confortai come meglio potevo, vedendola addormentarsi lentamente sotto le mie carezze. Mi faceva una pena infinita.
Decisi di andarmene, portando con me quei fiori quasi appassiti.

Un profumo lieve, fresco, con una nota di violetta. Un profumo che non apparteneva ai fiori che avevo in mano.

Riaprii la porta ed arricciai il naso, alla ricerca di quell'odore.

Nella mia mente fu come se una scia azzurrognola, evanescente, si formasse davanti agli occhi, portandomi verso il letto.

«Himura-san...», cercai di imprimere quell'odore nella mente e le lasciai un'ultima carezza sui capelli prima di uscire definitivamente dalla stanza.





Non avrei dovuto buttare i fiori nel cestino della guardiola: quell'odore di marcio mi stava facendo innervosire. Chiusi il sacco della spazzatura ed aprii la finestra.
Preferivo l'odore di foglie umide e di asfalto bagnato che veniva dall'esterno, assieme a un tenue profumo di tabacco.

La mia sigaretta doveva essere già spenta: quale dei miei colleghi si stava avventurando all'esterno con quel tempo?

Mi affacciai quel poco che bastava per guardare di sotto e vedere un'ombra scura proiettata nel cortile, impossibile da riconoscere.
Non avevo voglia di tornare alle mie scartoffie, così indugiai alla finestra, tornando ad appoggiare la testa, inspirando a pieni polmoni l'aria fresca e umida della notte.

Non avevo previsto di tossire e quasi di soffocarmi con la mia stessa saliva!

Quando mi ripresi l'ombra si era spostata e il fascio di luce della porta illuminava una persona completamente vestita di nero che se ne stava andando.
La voce mi uscì automaticamente, incontrollabile, come se il mio sesto senso me lo suggerisse. «DABI!»

Lo vidi fermarsi sotto la pioggia battente, girandosi verso la mia voce. Non aveva ombrello e non potevo vederlo in faccia da quella distanza.

L'unica cosa che riuscii a vedere, nella penombra del cortile, fu la sua mano alzata, circondata da un lieve bagliore azzurro, prima che si allontanasse di nuovo, sicuramente con uno dei suoi sorrisini sulla faccia.

Mi prendeva pure in giro lo stronzo!

Chiusi con rabbia la finestra, imprecando e guardandomi poi attorno, sperando che nessuno si fosse svegliato per quel rumore.





Alle sette e mezza ero già davanti alla porta del mio appartamento. Tutto sommato era stato un turno tranquillo, ma io ero comunque mentalmente stanca: tutti i miei pensieri giravano attorno a quella frase di Yuito: "Non sei sbagliata Mika. Non pensarlo mai".

Mi aveva fatto rimuginare tutta la notte sui miei errori passati, sulle scelte sbagliate fatte, su tutti i rimpianti. Avevo perfino pianto ad un certo punto e l'essere stata completamente da sola, senza nessuno a distrarmi, mi aveva reso estremamente triste.

Avevo solo voglia di buttarmi a letto, ma rimasi nel genkan, osservando il mio appartamentino.

Un forte senso di oppressione mi strinse il cuore in una morsa.

Abbandonai in entrata scarpe, borse ed ombrello.

Una luce grigia filtrava dalla porta finestra.
Mi tuffai sul divano, a faccia schiacciata su quei cuscini, che profumavano di bucato.
In preda alla rabbia, un paio di giorni prima, avevo tolto la tela di copertura e l'avevo lavata, assieme alle federe dei cuscini, che portavano ancora quel suo fastidioso odore di legno bruciato.

Chiusi gli occhi, per quelli che mi sembrarono pochi secondi: mi svegliai che era ormai ora di pranzo e mi ero addormentata in una posizione scomoda. Avevo la schiena e il collo più indolenziti di quando ero entrata a casa.

Avevo la giornata libera e me la presi comoda: bagno, capelli, una porzione di insalata, un dolcetto con un bicchiere di the caldo.

Mi sembrava di essere rallentata e il rumore della pioggia all'esterno non aiutava.
Avevo messo un po' di musica classica, giusto per non pensare, cercando leggere un libro. Un pomeriggio lento e triste.

Il cielo si era scurito e forti tuoni riempivano l'aria.
Sobbalzai al suono del campanello e notai che era quasi ora di cena.

Mi affrettai ad andare ad aprire. Quello che mi sorprese di più non fu tanto la visita non attesa, quanto la persona che adesso scorgevo dalla fessura della porta.

Staccai il chiavistello e lo affrontai con rabbia, assestandogli un sonoro ceffone sulla guancia umida di pioggia.

Voltò la testa e vacillò per il colpo e per la sorpresa.
Non si toccò la guancia, non emise un suono fino a che non riuscì a guardarmi negli occhi.
La voce era rauca e profonda come ricordavo. «Severa, ma giusta.»

«E tu sei uno stronzo». Lui mi rispose con un sorriso, cercando di entrare. Lo bloccai.

«Dove credi di andare?»
Senza togliersi il sorriso dalla faccia indicò con un dito l'interno del mio appartamento.

Scossi la testa, inveendo contro di lui e lanciandogli addosso tutte le mie ragioni per odiarlo.

«Me ne faccio poco del tuo odio, topolino. Non pensavo di trovarti così infastidita...Meglio se ti lascio nel tuo brodo», fece lui, totalmente annoiato dalla mia sfuriata, andandosene mentre ancora gli stavo parlando.

Chiusi con forza la porta, imprecando sottovoce. Quel ragazzo era riuscito a tirare fuori la parte peggiore di me, e mai mi ero arrabbiata tanto per qualcuno che non mi richiamava dopo una scopata.
Non dopo una come quella...

Il bussare insistente alla porta mi fece sperare che fosse di nuovo lui, che fosse tornato sui suoi passi per scusarsi del suo comportamento.

Invece era la signora dell'appartamento accanto al mio, carica di ombrello e bimba in braccio, pronta per andare chissà dove con quel tempaccio.
«L'ha dimenticata qui fuori, Shimizo-san? La porti dentro o si riempirà d'acqua!» e mi indicò una piccola sporta della spesa, accanto alla ringhiera del ballatoio.

Ringraziai e tornai dentro a vedere cosa fosse.
Qualche confezione di noodles, delle birre e del ramen pronto.
«Dabi...», sospirai esasperata.

Non mi sentivo in colpa per come lo avevo trattato, ma una minuscola parte del mio essere stava urlando quanto quel gesto fosse carino.

Bussarono di nuovo. «Signora Nakano le serve qualcos-»
Rimasi interdetta trovandomi di nuovo di fronte quel ragazzo, zuppo da capo a piedi di pioggia.

Mi colse alla sprovvista e mi spinse all'interno, chiudendo la porta alle sue spalle con una manata.
Indietreggiai e per poco non caddi all'indietro, inciampando sul gradino d'entrata. Riuscì ad afferrarmi per un braccio prima che rovinassi a terra.

Dabi aveva un'espressione indecifrabile in volto e i suoi occhi sembravano di ghiaccio.
La presa sul braccio si fece più salda e mi spinse lungo il corridoio, seguendomi passo dopo passo, senza neppure togliersi le scarpe. Sapeva di pioggia e di terra e mi stava bagnando tutto il pavimento.

Protestai, cercando di far tornar fuori la rabbia accumulata in quella settimana, mentre indietreggiavo verso la finestra, ancora con la sua mano calda sul braccio.
Sbattei contro il vetro fresco, che arrestò la sua avanzata.

«Allora è così che si accolgono gli amici dopo un po' che non li vedi? Ho pure fatto la fatica di portare qualcosa da mangiare e tu mi ripaghi così?», ringhiò.

«Ah! Siamo amici adesso?», gli chiesi, velenosa come non lo ero mai stata.

Con quegli occhi sembrò volesse uccidermi nel modo più crudele possibile. Deglutii a fatica, per mantenere quella mia assurda posizione di vittima incazzata.

Lasciò la presa sul mio braccio. «Tsk! Sei solo un topolino fastidioso. Non so nemmeno io perché sono tornato qui...»

Gli girai attorno, cercando di evitarlo, di trovare una via di fuga, ritrovandomi poi a terra per essere scivolata miseramente sulla scia d'acqua e fanghiglia che aveva lasciato.
Lo vidi ridere, divertito da quella scena patetica di me col culo sul pavimento con espressione sofferente. Non mi diede una mano, non che me la aspettassi da uno come lui.

«Magari ti potevi fare vivo prima...», sbuffai.

«Ho avuto da fare.»

«Sì, come no. Una intera settimana impegnata? Eppure, sai dove ab-»

«Tu avevi il mio numero. Potevi chiamarmi e potrei sentirmi offeso anche io.»

Lo guardai e quasi scoppiai a ridergli in faccia. «Tu offeso? Se tu sei offeso io sono sicuramente l'Hero numero uno!», lo canzonai.

Me ne pentii subito dopo, quando mi ritrovai spalle al muro con Dabi che mi bloccava la gola con la mano. «Non scherzare col fuoco, topolino

Lasciò la presa subito, perché sicuramente era riuscito nell'intento di spaventarmi e farmi stare zitta.

Ancora scossa da quel gesto lo vidi togliersi poco alla volta tutti gli indumenti che aveva addosso, rimanendo completamente nudo di fronte a me.
Rimasi a bocca aperta per lo shock di tanta sfacciataggine.

Mi coprii il volto con la mano, ma il suo culo, pallido e scultoreo, era così delizioso da guardare che rimasi letteralmente imbambolata.

Era sensuale in ogni movimento e in ogni centimetro di pelle sana o ustionata, proprio come me lo ricordavo. Deglutii rumorosamente.

Narcisista, sfacciato e arrogante. Altro da aggiungere alla lista?

Tornò sui suoi passi, avvicinandosi a me con sguardo feroce, prendendomi il mento con una mano. «Non hai sentito una sola parola di quello che ti ho detto, vero?»

La mia voce fu un sussurro contro il suo ghigno: «No»
Solo in quel momento vidi la sua guancia arrossata e del sangue rappreso tra gli anellini sotto l'occhio sinistro.

Mi baciò. Così come aveva fatto una settimana prima, in maniera quasi animalesca.
Esalò un po' di vapore, surriscaldato da quel gesto. «Vieni a lavarmi la schiena, topolino»

«Mika...»

«Cosa hai detto?»

«I-il mio nome è Mika...non topolino...per favore, puoi chiamarmi col mio nome?»

Col viso ancora vicino al mio e tutti i muscoli tesi nello sforzo di trattenersi, lo vidi corrucciato, pensieroso.

«Potrei...ma tutti ti chiamano così. – fece una pausa - Io? Io non sono come tutti.»

Mi mancò il respiro per come disse quella frase, con una serietà che mi spiazzò.

Si avvicinò al mio orecchio. «Sai...il tuo cuore pompa più forte quando ti sono così vicino...specialmente quando non hai dove andare, quando sei completamente nelle mie mani...»

Tornò a baciarmi e le mie gambe quasi cedettero. Averlo davanti a me, nudo, ed io completamente vestita, mi eccitava e avevo una voglia matta di toccarlo.
Mi spinse contro il muro, facendomi sentire quanto quella situazione eccitava anche lui.

«Voglio mettere le cose in chiaro fin da subito: non ho interesse nei tuoi confronti, se non...sessualmente. Dei tuoi sentimenti non me ne frega un cazzo. Ti sta bene?»

«Non lo so.» e mi diede un buffetto sulla guancia, poco meno di uno schiaffo.

«Risposta sbagliata. Almeno il tuo corpo è onesto, al contrario di te...», mi rimproverò, infilando una mano tra le mie gambe, facendomi sussultare.

«Ti sta bene?». Annuii in risposta.

«Chiarito questo, voglio che tu sappia che non sei l'unica. Voglio toglierti quelle strane idee che voi donne avete sul cambiare l'uomo e balle varie. Non sei l'unica, nessuna lo sarà. Non sono fatto per le cose sdolcinate. E vedi di non starci troppo male, ok topolino?». Il suo tono canzonatorio mi dava sui nervi, ma annuii lo stesso.

Spostò la mano di nuovo sul mio collo, stringendo appena la presa, parlando quasi a sfiorarmi le labbra.

«Terzo...non sono buono. Non urlare il mio nome per strada, non corrermi incontro se mi vedi. Di certo non mi nascondo per le mie cicatrici...non me ne frega un cazzo di ciò che la gente pensa di come sono fatto.»

Mi leccò le labbra e cominciai a tremare, chiedendomi chi avessi di fronte.

E c'era una sola risposta possibile, che fece accapponare la pelle e mi gettò di prepotenza sul sottile orlo di un incubo.

Villain.

Image credit _artvirtuoso

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