2. Crawlin' back to you
I've dreamt about you nearly every night this week
How many secrets can you keep?
'Cause there's this tune I found
That makes me think of you somehow an' I play it on repeat
Until I fall asleep, spillin' drinks on my settee
~ Arctic Monkeys ~
La luce verdognola che filtrava dalle tapparelle rotte sembrava diluire il mondo in uno spettro malato, umido e stanco, trascinando l'ambiente in un pallore irreale. Un riflesso opaco sul metallo, sugli angoli smussati delle cose abbandonate. Una città morta, un palcoscenico per fantasmi.
Le pareti dell'appartamento erano scrostate in più punti e coperte di incrostazioni di muffa e c'era odore di chiuso. La pioggia picchiettava monotona sui vetri come dita ossessive su un tamburo.
«Grazie per la diagnosi, dottoressa.». Lui la osservava in silenzio, la mascella tesa per il dolore e la fatica, come il resto del corpo.
Odiava lavorarci assieme perché era sempre così: ogni parola era una provocazione, ogni sguardo sembrava dover essere una sfida. «Lo so.»
Kaede si voltò verso di lui per la prima volta, sbuffando e i suoi occhi - quelli strani, tagliati all'insù come quelli di un gatto, ambrati, sempre inquietanti per Katsuki - brillavano quasi nella penombra mentre si posavano su di lui con quel misto di disprezzo e attenzione che lo faceva incazzare ogni volta.
Lui se ne stava appoggiato al muro, accanto alla finestra, la mascella contratta, il fiato che si condensava nell'aria fredda. Gocce di pioggia colavano dalla punta dei suoi capelli, bagnandogli la divisa fradicia sul petto gonfio. Il sangue, intanto, continuava a macchiargli la tuta, colorandola lentamente, come l'inchiostro con la carta assorbente, goccia dopo goccia. Eppure non si lamentava. Non cedeva. E questo, cazzo!, la faceva impazzire.
«Lo sapevo che saresti stato d'intralcio...» borbottò. La voce era roca, un sussurro graffiato dalla fatica e dalla rabbia. «Eccolo qua, il giovane salvatore del mondo, ridotto a zoppicare come un vecchio col mal di schiena...», e lasciò cadere lo zaino a terra inginocchiandosi, le gambe dolenti e rigide, frugando all'interno con movimenti rapidi e precisi. Aveva le mani sporche di polvere e piene di graffi, il fiato corto, la giacca intrisa d'acqua e fango.
Cercava qualcosa, ma la mente correva altrove. Ogni movimento era meccanico. Ogni respiro, più lento. Ma non per stanchezza.
Lo osservava, preoccupata.
«E io sapevo che saresti stata un cazzo di problema.», ringhiò il biondo, in risposta. Non la guardava più: fissava un punto lontano, fuori dalla finestra, come se ci fosse qualcosa, oltre la pioggia. «Se avessi seguito le indicazioni‒»
Kaede tirò fuori dal fondo dello zaino il kit striminzito di primo soccorso che gli avevano assegnato, mezzo schiacciato da un cambio di vestiti e dalla torcia, e ne estrasse una garza semi-asciutta, un rotolo di bende e una fiala di disinfettante.
«Se avessi seguito le tue stronzate, saremmo morti.», e srotolò con calma la garza, mentre si avvicinava. Le dita tremavano appena. Non per la fatica. Non del tutto.
«Dai... Fammi vedere.», ordinò.
Lui la fulminò con gli occhi, ma non si mosse. Era troppo stanco per ribattere, troppo consapevole del sangue caldo che colava sotto la divisa. «Non c'è bisogno.», ma una smorfia di dolore tradì la sua voce.
«Bakugo, levati la giacca o te la strappo! Non ho tempo per la tua virilità tossica.».
Lui le lanciò un'occhiata stanca. Quegli occhi duri che sembravano fatti per insultare, per giudicare... Eppure, adesso, non sembravano neppure capaci di farsi scudo. Erano solo esposti, tremanti, sul bordo di qualcosa che probabilmente lui non voleva nominare...
«Sto bene.» e Bakugo la fissò, incatenando gli occhi vermigli alla sua figura: Kaede aveva spalle forti e fianchi sottili, mani rapide, capelli scuri raccolti in una coda corta e disordinata e quel modo di piegare le labbra che sembrava dire "non mi freghi nemmeno se ci provi".
«Non rompermi i coglioni e fai come ti dico!»
Quegli occhi... ambrati, felini. Ma non da gattino. No. Quegli occhi erano quelli di un predatore che finge di essere innocuo fino all'ultimo.
Lei sospirò, si avvicinò ancora. Le dita sfiorarono la zip della giacca termica, lente, misurate. «Prega di non avere una scheggia...», disse lei. «Mi farebbe schifo tirarla via, ma se non la tolgo...»
Ogni movimento era fluido, calcolato, ma mai freddo e quando si avvicinò per sollevargli la maglia, lo fece con una professionalità esasperante. Le sue dita erano fredde e precise, ma Katsuki sentì lo stesso una scossa attraversargli la pelle.
«Fallo, allora. Tirala via se c'è. Ma se mi fai male, ti do una testata!» e la guardò in quegli stessi occhi che gli mettevano addosso una tensione che non era solo nervosa. Era qualcosa sotto pelle, sotto la tuta, sotto ogni maledetta barriera che aveva.
«Romantico come sempre, Dynamight.»
Lo disse senza ironia, senza calore. Eppure la voce - roca, troppo roca per una donna come lei - gli lasciò addosso un'impronta più intima di quanto volesse ammettere.
«Ti avverto, se fai un'altra smorfia da duro mentre ti medico, ti lascio dissanguare come un maiale sotto la pioggia.», sputò, mentre con la garza e il disinfettante tentava di pulire la ferita in modo del tutto inutile e disastroso.
«Promesse, promesse...» mormorò lui, la voce più bassa del solito. Ma si lasciò fare.
Il contatto fu minimo: un lembo di garza, il calore della pelle che cominciava a sentirsi sotto i vestiti bagnati. Ma bastò e l'aria tra loro si fece più pesante. Come se la stanza, il mondo, trattenesse il fiato.
Lui la fissava, attento. L'odore della pioggia riempiva la stanza, eppure quel profumo, impercettibile, quello che aveva lei e che non avrebbe mai ammesso di ricordare da così tanto tempo...
Kaede chinò il capo, i capelli scuri ancora bagnati che le cadevano sugli zigomi, sulla guancia tesa. Il sangue le si era appiccicato addosso prima ancora che se ne accorgesse: l'aveva sui polpastrelli, sotto le unghie, tra le pieghe della pelle.
Le sue dita avevano tremato per un attimo, minuscolo, quando la garza aveva aderito alla ferita aperta. Non per disgusto - il sangue non le aveva mai fatto paura - ma per qualcosa di più viscerale. Qualcosa che aveva a che fare con la carne viva di lui, la tensione sotto la pelle, il respiro trattenuto.
«Dovresti stare fermo.», aveva detto. Lui emise in risposta un gorgoglio infastidito. «Dio!... è impossibile non farti male!», sbottò infine.
«Allora per me sarà impossibile non tirarti una testata tra un po' se non la finisci di‒», ma il respiro gli morì in gola, soffocato come il dolore che provò quando lei premette con più forza per tentare di fermare il sangue.
Kaede sollevò di più il bordo della giacca per poter agire meglio, con più delicatezza del previsto, in un gesto lento. Le sue dita erano fin troppo fredde per quella pelle calda e ferita. L'odore del sangue. L'odore della pioggia. E il suo.
E trattenne il fiato.
Si odiava per questo. Per quella parte del cervello che, mentre premeva la benda contro il suo fianco, pensava che fosse caldo. Troppo caldo. Anche se fuori faceva un freddo bastardo.
Ma ti sei visto, coglionazzo? Testardo, idiota, pieno di cicatrici...
Bakugo l'aveva guardata di sbieco, e Kaede aveva avuto l'impulso di voltarsi, di mettersi un muro di piombo tra sé e quel modo in cui lui la guardava, come se stesse leggendo in trasparenza tutti i pensieri che cercava di soffocare.
Era troppo vicino.
E dannatamente troppo lamentoso per uno che si ostinava a non voler chiedere mai aiuto.
Avvolse la garza attorno al fianco con movimenti bruschi, efficaci. Ogni tanto lo toccava con più decisione per errore (o forse no).
Lei prese coscienza che il respiro in gola le si era fatto più veloce, che le mani stringevano il tessuto della garza un po' più forte del necessario.
Lui, invece, si accorse del silenzio. «Che c'è? Ti sei distratta?»
Lei lo guardò. Lentamente. E fu come se gli scavasse sotto la pelle con gli occhi.
«Sono solo sorpresa di trovarti ancora cosciente dopo tutto il sangue che ti è uscito. Dev'essere la prima volta che usi la davvero testa invece delle mani.»
Il biondo serrò la mascella e i suoi occhi scesero un attimo sulle labbra di lei, prima di assottigliarsi in due fessure ardenti, accompagnate da un grugnito di fastidio.
E Kaede lo sentì. Lo percepì al pari come una corrente sotto pelle, come se l'avesse fisicamente sfiorata con lo sguardo.
Lei finì di fare un piccolo nodo sulla garza. Ma non si ribatté.
Il respiro di lui era sulla sua pelle. Il suo era sul collo di lui.
Ancora troppo vicini.
Avrebbe voluto morderlo.
O baciarlo.
O prenderlo a pugni.
Magari tutti insieme.
«Hai mani più delicate di quanto pensassi...» disse lui, quasi un sussurro, più pericoloso del previsto, passandosi una mano sulla fasciatura appena fatta, constatando che fosse fatta abbastanza bene.
«E tu sei meno duro di quanto ti piaccia fingere.»
Il silenzio che seguì fu una lama, pendente tra di loro.
«Purtroppo sopravvivrai, pallone gonfiato.» disse lei infine, la voce incrinata da una mezza risata e anche lui accennò a un mezzo sorriso, ma nei suoi occhi c'era un lampo diverso, qualcosa che si muoveva.
«Se sei stata brava sì, gattina.»
E quel nomignolo... Dio!, quel nomignolo che lei di solito odiava... adesso...
Kaede si staccò da lui di scatto, come se quel contatto le avesse bruciato la pelle: un attimo, uno solo, e il respiro le era rimasto incastrato tra le costole. Si voltò, cercando ossigeno in quell'aria viziata. Afferrò lo zaino da terra, prese la torcia e lo richiuse in fretta, le dita rigide, meccaniche. Cazzo, cazzo, cazzo.
Si rimise in piedi ignorando il dolore alla spalla sinistra, che ora era come una bocca che le mordicchiava la pelle sotto la giacca, e che lei si ostinava a non considerare. Ogni passo era una fitta, ma la rabbia che aveva verso se stessa l'aiutava a ignorarla.
Sparì nella stanza accanto, accendendo la torcia. L'appartamento sembrava rimasto in sospensione: l'odore del tempo umido, mobili spogli, scaffali mangiati dall'umidità. Frugò negli stipetti della cucina come se potesse strapparne fuori qualcosa di vivo, qualcosa che le facesse sentire di avere ancora il controllo.
Una lattina di fagioli. No, due. Carne in scatola. Una bottiglia d'acqua semivuota - no, okay, quella era meglio non prenderla...
"Meglio di niente.", pensò.
Poi sentì quella voce, roca e distante, un mezzo lamento. No, si corresse: una imprecazione a mezza voce.
Tornò nel salotto con il fiato corto e le lattine tra le mani, le dita intorpidite dal freddo e dalla tensione.
Katsuki si era seduto a terra, appoggiato con la schiena contro il muro. La luce opaca della finestra lo tagliava di sbieco: le guance pallide, le spalle larghe piegate in avanti. Gli occhi... la cercavano.
Ma appena la vide, il suo sguardo si fece una fessura.
«Hai la spalla ridotta di merda.»
Era la prima cosa che aveva notato vedendola rientrare: macchie scure sul lato della giacca di lei, il modo in cui Lynx teneva il braccio destro un po' sollevato, irrigidito, le dita che tremavano mentre appoggiava le lattine sul tavolo tondo del salotto che sembrava stare su per miracolo. La mascella tesa ad ogni movimento che le provocava fastidio.
«Non è vero.»
E lei, per tutto quel tempo, non aveva emesso un fiato, testarda come un mulo bendato.
«Ah no? Guardati! Sei tutta storta e mugugni ogni volta che ti muovi!»
«Ma non è vero un cazzo! Non mi sono lamentata!»
«Ti sei lamentata eccome! Sembri una principessina con un chiodo nel culo!»
Lei sorrise, un sorriso storto che però non gli fece vedere. Le battute si sarebbero sprecate per ribattere a quella ennesima gentilezza, ma sapeva anche che sarebbero state tutte a suo diretto svantaggio... «Beh, meglio principessa, che un macho zoppo!»
Katsuki si alzò dal muro con la stessa fatica con cui aveva cercato di sedersi, esausto nel corpo e nello spirito per dover fare da balia a una testa di cazzo come quella Lynx.
La sua caviglia protestò, ma lui si trattenne e, in quel momento, udì un rumore all'esterno.
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