1. A sweet greeting to a survivor

Le fiamme in casa si erano affievolite sul far del mattino, lasciando solo un pugno di mattoni fumanti al sorgere del sole. I muri erano anneriti dal fuoco e un solo albero, nell'orto, restava diritto, seppure a stento.
La luce azzurrognola dell'alba gli diede la forza per avventurarsi fuori dal capanno. Nell'aria vi era ancora quell'odore di bruciato che si attaccava alle cose.

Non provava nulla, vagava come un non-morto tra ciò che restava della sua vita.
Nostalgia, amore, tristezza, rabbia, solitudine: tutto si era incrostato sulle pareti del suo cuore come le alghe sulle pareti di un pozzo asciutto.

Prima che entrasse in casa, una delle travi del tetto si staccò con un tonfo, alzando una nuvola di polvere densa. Sopra e accanto a lui non c'era più nulla. Solo le travi più grandi avevano retto la furia devastante del fuoco.
La cenere, fuori, aveva coperto ogni cosa nel raggio di almeno quindici metri e, ad ogni passo, si alzavano nuvole grigiastre.
Si fermò appena oltre la soglia di casa, osservando la desolazione del fuoco e piccoli sbuffi di fumo che salivano ancora dalle braci in spegnimento. Guardando ai propri piedi scorse, nella penombra, la sagoma di un ratto, parzialmente carbonizzato.
Trattene un conato di vomito al pensiero che, tra quelle macerie, vi era la cenere di sua madre.

Non voleva stare lì, ma c'era qualcosa, dentro di lui, che gli impediva di muoversi. Non voleva entrare in quella casa e non ne voleva uscire.

Si ricordò di Ianco Milner, che aveva fatto la strada con lui fino al bivio e indietreggiò lentamente, voltandosi prima verso i campi, poi verso il bosco. Quel qualcosa che ribolliva dentro di sé lo spinse a correre di nuovo, percorrendo il bosco, costeggiando la fattoria degli Schmidt.
Un paio di vacche erano scappate dalla stalla, ormai distrutta dalle fiamme. In quella fattoria ci abitavano in tanti...
Fece una deviazione dal suo percorso, incurante di tutto, correndo fra le poche galline che tentavano piccoli voli per sfuggire al suo passaggio.

Si appoggiò allo stipite della porta sul retro, quella della cucina, ansimando per la corsa, avventurandosi poi all'interno. Tossì per il forte odore, coprendosi la bocca con la mano per fare meno rumore possibile. Conosceva bene quella casa, dato che sua madre lo mandava a raccogliere i panni da lavare della signora Schmidt.

Quando entrò nel grande salone li vide tutti, tra i materassi dove dormivano. Tutti con gli occhi chiusi, con il sangue addosso, in mezzo ai materassi. Materassi spaccati dalle pallottole, imbrattati di sangue. Sangue anche sui muri.

Non resistette oltre e vomitò, appena oltre le proprie scarpe.

Sperava che qualcuno si fosse salvato.
Si raddrizzò, pulendosi la bocca con la manica del giaccone, cercando di respirare e di calmarsi.
Uscì da quella casa, tornò nel bosco, diretto verso la piazza di Ibion.

Ianco doveva essere vivo.


Era sempre stato bravo a nascondino, più di tutti i suoi amici. Tuttavia, in quella desolazione, provare a nascondersi era un'impresa quasi impossibile.

Case crollate, fumo e cenere persi nell'aria, pianti e lamenti distanti: Isairel non riusciva a credere che quella fosse la realtà.
Sembrava uno dei suoi incubi più vividi, di quelli in cui si ritrovava da solo in mezzo al nulla.
La stanchezza, gli occhi brucianti e il vuoto che sentiva dentro erano così reali...

Era appoggiato al muro della torre dell'orologio, unico edificio apparentemente risparmiato dalla furia degli aggressori.
Le campane suonarono otto rintocchi.
Il cuore martellava nelle tempie e nel petto, la gola era arsa per la corsa e i polmoni chiedevano aria pulita che non esisteva in quel luogo.

Si sporse oltre l'angolo, controllando la piazza e le case che si affacciavano su di essa. Riversi a terra, sul selciato della piazza di Ibion, vi erano una dozzina di persone, irriconoscibili da quella distanza e, probabilmente, per i colpi inflitti.
Ricacciò indietro vomito e lacrime, passandosi le mani sporche sul viso.

Scattò di colpo quando sentì un paio di mani afferrarlo per le spalle.

«Isairel! Sei davvero tu?». La voce di Ianco tremava, un misto di sollievo e paura. Isairel lo abbracciò di slancio e si strinsero, talmente forte da lasciarsi entrambi senza alcun fiato, scivolando lungo il muro di pietra.

Credeva di aver finito le lacrime, ma così non era. Ianco gli baciò più volte le guance, gli infilò le dita nei capelli e gli tastò braccia e spalle per accertarsi che fosse intero, che fosse reale.

«Ianco, calmati. - gli prese il viso tra le mani – Sono qui e siamo... Vivi.». Fece il moro.

Ianco si passò le dita tra i capelli biondi, un'espressione di disperazione sul volto. «Hanno ucciso tutti...», sussurrò.
Isairel si limitò ad annuire, con lo sguardo fisso oltre le spalle dell'amico.
«I tuoi?». Isairel si limitò ad un gesto del capo, senza dire nulla.

Udirono qualcuno gridare, pareva avessero trovato dei sopravvissuti.
Si alzarono entrambi da terra e corsero lungo la piazza, scavalcando i morti, percorrendo la via fino alla bottega del fornaio; due loro coetanei stavano rivoltando i cadaveri alla ricerca di feriti e, in un angolo del negozio, dietro il bancone, la piccola Neva piangeva disperata accanto al corpo esangue della madre, una gamba ancora incastrata sotto il cadavere. Il vestitino blu era incrostato di farina e sangue, la bambola stretta in una mano.

Isairel ricordò che giocava spesso con sua sorella, Anika. Con due lunghi passi la raggiunse e la liberò, prendendola tra le braccia e portandola fuori da quel luogo di morte.

Solo ragazzi e bambini vagavano per le strade: amici, compagni di scuola e di giochi. Si conoscevano tutti in quel piccolo paese.

La bambina, di circa cinque o sei anni, continuava a singhiozzare. «Calmati Neva, sei al sicuro adesso.», ma nemmeno lui era convinto delle sue stesse parole.

Ianco lo raggiunse. «Isairel! Dove la vuoi portare?».
Il moro si fermò, quasi alla fine della via. Teneva ancora premuta la testa della bimba sulla spalla, cercando conforto in quel poco calore che emanava. «Non lo so, via di qua. Via di qua...». I due amici si guardarono. Dove sarebbero andati?

«Ehi! – qualcuno li chiamò – Venite! Ci serve una mano!».

Il sole stava cominciando a scaldare l'aria. Isairel cercò un posto tranquillo e fece sedere la bambina sui gradini del municipio, avvolgendola con la propria giacca.
«Neva... Neva, ascoltami, aspettami qui, va bene? Non ti muovere. Io e Ianco ci mettiamo poco, va bene?». La bimba annuì tra i singhiozzi. Le accarezzò la testolina e la sensazione del sangue impiastricciato tra i capelli gli diede la nausea.

I due ragazzi raggiunsero chi li aveva chiamati: dodici adolescenti maschi, più o meno coetanei, si erano riuniti per decidere cosa fare.

Quell'eccidio immotivato aveva portato via le loro famiglie. Gli aggressori avevano colpito nel momento in cui tutti erano nel pieno dei propri lavori e i ragazzi stavano tornando da scuola o dai campi.
«Non abbiamo tempo. - fece il più grande dei fratelli Frandsen, Arthur – So che è dura, ma non possiamo lasciarli così.».
Qualcuno prese coraggio. «Che vuoi fare Frandsen?».

Il ragazzo prese un profondo respiro ed indicò i ragazzi sopra i sedici anni. «Noi più grandi cercheremo di... Portare più corpi possibili al cimitero. Non è sicuro lasciarli dove stanno per gli animali e le malattie. Chi se la sente può aiutarci, trovando pale e scavando delle buche. Gli altri dovrebbero vedere se ci sono altri superstiti o feriti.».

Ianco guardò Isairel. «Che vuoi fare?», sussurrò all'orecchio dell'amico.
Il moro scrollò le spalle. «Ho scelta, secondo te?».


Se li caricavano in spalla, sul carro e sulla carriola che avevano recuperato, e li portavano al cimitero, avvolti in lenzuola, tovaglie, coperte e quanto riuscivano a recuperare.
Là, prima di farli scivolare nella fossa comune, cercavano di ricomporli con più dignità possibile.
Eppure, ogni volta che sfioravano quei corpi freddi e li coprivano con la terra, con essi se ne andava un pezzo della loro anima.

Ci volle tutta la mattina, fino a mezzogiorno inoltrato, per fare quel lavoro. E ancora non era finito.

Isairel, seduto a riposare accanto a Neva, si osservò le mani, sporche di sangue, terra e fuliggine. Le nocche sanguinavano per il freddo e gli faceva male la schiena.

La bimba aveva smesso di piangere e si era addormentata, avvolta nella giacca del ragazzo. Nel sonno sembrava così tranquilla.
Tutto il paese sembrava tranquillo, nessuno urlava, nessuno chiacchierava. Il vento leggero alzava polvere da terra in piccole forme circonvolute.

Era tutto finito, nel vero senso della parola.
La desolazione di quel luogo era la stessa che Isairel aveva dentro, come un artiglio nauseabondo, che si chiude lentamente attorno al cuore.

Guardò di nuovo la bambina, aggrappata a una bambola sporca e provò un dolore lancinante nel petto, tanto che si chiese se sarebbe morto di crepacuore in quell'istante.

«Tieni.», Ianco gli allungò una tazza di vino bollito, distogliendolo dai suoi pensieri e sedendosi accanto a lui.

«Perché è successo questo?», gli chiese, ad un tratto, tra un sorso e l'altro.
Il biondo scosse la testa. «Non lo so. Tu li hai visti?».
«No.».

La pausa finì presto, lavorarono l'intero pomeriggio, in silenzio, come era avvenuto al mattino.
Tutti avevano domande, ma nessuno aveva voglia di parlare.
Due ragazzine avevano recuperato della farina dal panificio ed erano riuscite a cuocere del pane per tutti. Pane e vino caldo, anche per i bambini più piccoli.

Secondo un tacito accordo, per tutti Arthur Frandsen divenne il capo di quella sgangherata accozzaglia di ragazzi: sui suoi ventidue anni gravavano le vite di circa trenta persone.

Avevano deciso di rifugiarsi nell'ufficio del Sindaco, l'unica stanza intatta del paese a possedere un camino.

Neva si accoccolò tra Ianco ed Isairel, guardando quest'ultimo con riconoscenza e timore. «Isa?».
Isairel si limitò a guardare la bambina, attirato da quella sua voce tremula.
«Dov'è Anika?», chiese la piccola, innocentemente.
Il moro chiuse gli occhi, poggiandole una mano sulla testa e stringendosela contro. La smorfia che fece parlò per lui.

Come quando ero sotto ai cadaveri
e fingevo di essere morto
Fermo tra quell'orrore e i papaveri
prima che un nuovo cielo fu aperto.
~ Bussoletti ~

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