10. Grateful kiss

Giorno 32 - h 13:45

Tutti erano sfiniti, nessuno escluso.
Pure le guardie sembravano aver corso una maratona, perché non facevano il loro solito giro tra i tavoli e sembrava che neppure una mosca volasse.
La gara fisica di quella mattina aveva messo i ragazzi a dura prova, perché si trattava di una gara vera e propria. Contro il tempo e contro sé stessi.
La sveglia all'alba era stata traumatica per tutti ed il percorso ad ostacoli in mezzo alla terra umida e al fango aveva reso l'impresa ancora più difficile.
Il supervisore Palmer e il Comandante a capo delle guardie si erano ritirati nell'ufficio di quest'ultimo per verificare tutti i tempi e i risultati delle prove.

A Isairel facevano male le gambe, si era impegnato moltissimo negli ultimi cinque giorni, dopo l'isolamento e le minacce di morte velate che gli erano arrivate dal Dottore.

Qualcuno singhiozzava alla fine dell'ampia sala da pranzo in cui stavano mangiando.
Ianco aveva ripulito il piatto con l'ultimo pezzo di pane e sembrava avesse ancora così fame da poter mangiare una vacca intera, interiora comprese.

Il moro sorrise all'amico: il biondino aveva dato tutto sé stesso in quelle prove, perché sperava di passare e di uscire da lì per finire in Accademia Militare.
Almeno, per tutti, il premio promesso era quello.

«Però te la sei cavata bene anche tu, Isa! Era da un po' che non ti vedevo così...».

«Così?».

«Così...grintoso! – gli arruffò i capelli – Mi piace che stai tornando quello di prima. Quasi stentavo a riconoscerti.».

Il sorriso amaro di Isairel tentò di nascondere tutta la frustrazione che quelle parole avevano suscitato: erano lì da un mese, ma non passava giorno in cui non ripensasse a prima.
Con un moto di disgusto allontanò da sé il piatto, ancora pieno di cibo, che prontamente Ianco prese, senza troppe domande, ingurgitandolo in pochi bocconi.

«Per te quando avremo i risultati?».

Scosse la testa. «Non ne ho idea.».

Il biondo lo guardò in tralice, come se stesse nascondendo qualcosa.
«Sai, uno dei fratelli Pedersen mi ha detto che l'altro giorno stavano movimentando grossi carichi sul retro.».

Isairel si avvicinò all'amico, le parole appena sussurrate. «Grossi carichi?».

«Sì! Attrezzature coperte da teli, casse con scritte tipo fragile, cose così. Secondo te sono armi?».

Isairel soffocò una risata. «Ian! Che immaginazione che hai!».

«Dico sul serio! Non prendermi in giro. Qui sono tutti troppo sospettosi e Pedersen è stato cacciato a male parole dagli operai. Non volevano che vedesse!».

«Ah! A me sembra invece che lo sforzo di oggi ti abbia dato alla testa. E forse sei un po' paranoico o sbaglio?».
Ianco gli mostrò un sorriso ampio, scrollando le spalle. «Che ci vuoi fare! Sono stanco, fi-ni-to! Vorrei solo andare a letto.».

Quella loro conversazione totalmente senza alcun senso logico, dettata più dalla stanchezza fisica che da una reale voglia di intavolare discorsi, fu interrotta quando qualcuno fischiò. Tutti furono richiamati all'attenzione e i due ragazzi si alzarono assieme agli altro, riconsegnando i vassoi del pranzo sui carrelli della sala mensa.


Giorno 32 - h 21:12

Fuori pioveva a dirotto e quel tempo burrascoso rispecchiava molto bene l'animo di Ianco in quel momento.

Per tutto il pomeriggio i ragazzi dell'Istituto avevano atteso con trepidazione i risultati dei test fisici, ora appesi su una bacheca improvvisata, a metà del lungo corridoio che portava alla sala mensa.
Solo i primi cinque con il punteggio più alto sarebbero stati idonei per l'Accademia.
Il foglio con i nomi, scritti in ordine alfabetico, era stato preso d'assalto appena erano finite le lezioni in aula.

Qualcuno imprecava, altri se ne andavano in mensa totalmente sconsolati.
Chi aveva eccelso nei punteggi era evidenziato con una riga, tirata con una penna rossa da una mano non troppo ferma. Coloro che avevano vinto meritavano i complimenti degli altri, pacche sulle spalle, abbracci più o meno sinceri, sguardi invidiosi.

Ianco invece era rimasto immobile a un metro dal foglio, lo sguardo vuoto e i pugni serrati, prima di girare i tacchi e camminare spedito verso la propria stanza, incurante del richiamo di Isairel che lo invitava a riempirsi lo stomaco per non pensare alla delusione.
Ora Ianco si ritrovava seduto sul proprio letto, con la testa tra le mani, a versare lacrime silenziose sulle proprie ginocchia.

«Ti ho portato qualcosa da mangiare.». La voce di Isairel lo destò dalla propria disperazione: gli stava allungando un piccolo incarto, fatto con un tovagliolo.

«Non ti avevo sentito.». Gli occhi erano gonfi per il pianto e le labbra arrossate dai morsi che si era auto-inflitto per ricacciare indietro i singhiozzi.
Aprì il piccolo scrigno di carta, scoprendo un panino con un paio di fette di arrosto al suo interno. «Ti sei perso una cena premio».

«No, Isa. Io ho perso IL premio. – addentò il panino e riprese, con la bocca piena di cibo – Settimo! Il mio punteggio... Ero il settimo!».
Deglutì a fatica il boccone masticato.

Com'è diverso da stamattina, pensò Isairel, osservando l'amico cenare, mentre le lacrime continuavano a bagnargli le guance anche mentre masticava con fatica.

Il biondino lasciò il panino a metà e Isairel non sapeva in che modo confortarlo.
Ianco non era un piagnucolone, risollevava il morale a tutti e, da quel che ricordava, finora non l'aveva mai visto piangere.
La teatralità non gli mancava, ma non si era mai pianto addosso o disperato come in quel momento, in cui stava emergendo tutta la fragilità che aveva sempre nascosto.

Isairel gli poggiò una mano sul capo, carezzandogli i corti capelli biondi.
«Non pensavo odiassi così tanto questo posto.».

«Lo odio. Voglio andarmene e questa era l'occasione giusta. – una lunga pausa, un sospiro rassegnato - E l'ho sprecata.».

Isairel sulla tempia, vicino all'orecchio, notò un taglio dai contorni rosati, poco profondo. Lo sfiorò con i polpastrelli per tutta la sua estensione, attirando lo sguardo dell'amico. «Oggi?».

«Sì. un chiodo che non ho visto.». Rimasero in silenzio, seduti l'uno accanto all'altro.

Poi Isairel si accomodò meglio sul materasso, allungando le gambe oltre il bordo del letto, incrociando le caviglie. Diede un colpetto alla spalla dell'amico con la propria, sorridendogli.

«Un lato positivo c'è, comunque.».

«Sarebbe?».

«Se tu avessi vinto, saresti stato da solo. Restando qui hai me!».
Si guardarono per un momento, l'espressione furba di Isairel non gli impedì di scoppiare in una risata liberatoria, contagiosa anche per il moro, tanto da concludersi con respiri affannati e lacrime di divertimento.

Ianco gli passò una mano attorno alle spalle e lo attirò a sé, abbracciandolo forte.
«Quanto adoro la tua idiozia, Isa!».
Il moro borbottò qualcosa che lui non capì.

Sciolsero l'abbraccio, continuando a ridacchiare anche mentre le loro fronti cozzavano insieme.
Ianco osservò l'amico ridacchiare ad occhi chiusi. Aveva ancora le guance umide di lacrime, leggermente arrossate, la bocca socchiusa.

Con uno slancio istintivo, posò le proprie labbra sulle sue, cogliendolo impreparato: Isairel stava sbattendo le palpebre troppo in fretta e la sua espressione era indecifrabile. Ianco si staccò bruscamente, paonazzo, balbettando scuse sottovoce e un non so che mi sia preso totalmente falso e fuori luogo, mentre l'amico si alzava di scatto dal letto ed usciva dalla stanza di corsa e senza proferire parola.


Arthur si bloccò, silenzioso, a qualche metro di distanza dalla porta della stanza di Milner. Quel coglione di Gates ne era uscito come avesse le fiamme ai piedi.
Accanto a lui, Nicholas Wyatt aveva assistito alla stessa scena.
Gates era l'unico in giro a quell'ora nei corridoi e non era una guardia.
Entrambi i giovani agenti si voltarono verso l'Assistente che li supervisionava, fermo a qualche passo da loro.
«Cosa vuole che facciamo, Signore?».

L'uomo si sistemò gli occhiali dalla montatura sottile sul naso: respirava in maniera talmente misurata da sembrare inanimato. «Chi è quello che stava scappando?».

«Gates, Signore.».

L'uomo si mordicchiò l'interno della guancia. «Gates... Resta comunque problematico. La stanza 131 è di...?».

«Milner. Ianco Milner.» rispose Frandsen al proprio superiore.

«In casi come questo si procede secondo la seguente prassi: si va prima di tutto a controllare che il signor Milner stia bene. Poi passeremo dal signor Gates: se ha davvero così tanta voglia di correre, ha l'intero campo sportivo all'esterno per poterlo fare.».

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