2. The charming dawn

«Abbiamo ancora del movimento, Signore!». Il soldato aveva attirato l'attenzione di un uomo dal giaccone chiaro. I capelli brizzolati erano impomatati sulla testa e la ragnatela di rughe d'espressione attorno agli occhi lo facevano sembrare molto più vecchio di quanto non fosse.

Si tolse gli occhiali, prendendo il binocolo dalle mani del soldato e osservando a sua volta: dalla collina era visibile il paese nella sua interezza e una colonna di fumo aveva cominciato a levarsi da uno dei comignoli della piazza, non appena il sole aveva iniziato a tramontare. Un andirivieni di persone aveva animato il paese per tutta la mattina e tutto il pomeriggio. Da quella distanza non si capiva bene chi fossero i sopravvissuti.

Un ufficiale gli si affiancò, uno stuzzicadenti tra le labbra e le mani ficcate nelle tasche del giubbotto pesante.

«Allora, Signore, come procede il suo esperimento?».

«Molto bene, Caporale! Sono molto soddisfatto. Avete fatto proprio un bel lavoro e il gruppo sta reagendo molto bene.». L'accento, tipico del Nord, era duro ed ogni consonante sembrava dover grattare nella gola prima di uscire. Aveva una voce bassa e fastidiosa, tanto che al Caporale veniva voglia di usare il suo stesso accento solo per prendersi gioco di lui.

L'uomo riconsegnò il binocolo al soldato e inforcò gli occhiali, accendendosi un sigaro scuro e maleodorante. Un sorriso affilato si formò sulle sue labbra, mentre, assieme all'ufficiale, si avvicinava al tavolo da campo.

La mappa del piccolo paese era segnata con piccole croci rosse, quasi una per ogni casa o fattoria.

«Dobbiamo fare un altro giro di perlustrazione a partire dalla periferia?», fece il militare, indicando una delle proprietà più lontane dalla piazza.

«No no no! – si affrettò a fermarlo l'uomo – Quello che avete fatto può bastare. Lasciamoli tranquilli questa notte. Potete fare solo una perlustrazione con le auto da qui a qui.», e disegnò col dito il percorso sulla mappa.

«Appena cala il sole ci muoveremo, secondo il suo ordine, Signore.».

«Mi raccomando, non scendete dai veicoli e non azzardatevi a sparare! Spaventateli e basta, più di quanto non lo siano già. Io darò le disposizioni per domani al Capitano.».

Il Caporale unì i tacchi e lo salutò con deferenza, mentre l'uomo usciva dalla tenda, lasciandosi dietro una scia di tabacco maleodorante.




Il pavimento era scomodo e il fuoco si stava lentamente spegnendo, senza che nessuno avesse la forza di alimentarlo.

Il freddo e l'umido stavano lentamente entrandogli nelle ossa. Cercò di portarsi le gambe al petto, sforzandosi di non sentire l'urgenza di pisciare. Tuttavia, quel bisogno si fece più impellente e costrinse Isairel ad alzarsi.

Neva dormiva abbracciata a Ianco. Una fitta allo stomaco lo colpì talmente forte da farlo piegare e ricacciare indietro il conato di vomito che premeva per uscire.

Cercò di scavalcare gli altri, uscendo furtivamente dalla stanza, e poi giù, lungo le scale di marmo del municipio. Si strinse nel giubbotto, uscendo nel vicolo accanto all'edificio, in un posto defilato per poter fare pipì.

Un rombo di motori in lontananza lo allarmò, le ultime gocce di urina investirono le sue scarpe e si affrettò a richiudersi i pantaloni, appiattendosi il più possibile contro il muro.

Lungo la strada principale passarono un paio di camionette.

Trattenne il respiro, come se quel gesto lo potesse far diventare un tutt'uno con il muro di mattoni scrostato.
Non si mosse per un tempo che gli parve infinito, cercando di non fare alcun rumore.

La camionetta sembrava essersi allontanata, perché non udiva più rumori.
Con calma si spostò verso la facciata dell'edificio: una camionetta era parcheggiata al centro della piazza e, sopra di essa, due uomini muovevano le torce in ogni direzione, uno guidava e uno, forse, aveva un fucile in braccio.

Deglutì: era troppo esposto per poter rientrare nel municipio, ma non poteva lasciare gli altri all'oscuro.

Combatté con il proprio istinto di fuga e indietreggiò fino alla fine dell'edificio. Quel palazzo doveva avere un'entrata secondaria!

«Eccola!», sussurrò, trovando la piccola porta laterale chiusa. Provò a forzare la maniglia, ma il rumore era troppo forte e sicuramente gli incursori se ne sarebbero accorti. Già udiva delle voci in lontananza...
Scosse la testa, desistendo e provando ad aggirare l'isolato, tentando la via parallela.

Si appiattì dietro un pilastro di una casa appena udì un'auto passare.

Dopo di quella, la via sembrava libera.

Col cuore in gola corse fino all'entrata del municipio, senza guardare se ci fosse qualcuno nella piazza.

Entrò nella stanza del sindaco di corsa, ansimando e chiamando Frandsen con un filo di voce.

Poi un dolore lancinante alla testa gli oscurò la vista, poco prima di rovinare a terra, tramortito.



...due schiaffi, poi tre.

Aprì con fatica gli occhi.

«Frandsen, sei un coglione!», sussurrò qualcuno. Si portò le mani alla testa, un dolore lancinante alla tempia gli fece fare una smorfia ed un mugugno sordo.

«L'unico coglione qui è Gates! Che cazzo ti è saltato in testa di uscire?».
Gli occhi azzurri di Arthur Frandsen lo fissavano con un misto di rabbia ed apprensione. Isairel si girò su un fianco, la testa che pulsava forte.

«Sono... Sono andato a pisciare e li ho visti.».

Arthur Frandsen imprecò sottovoce. «Sì. Li ho sentiti passare, ti hanno visto?».

Isairel deglutì. «Spero di no.».

«Lui è bravo a nascondersi - intervenne Ianco – e di sicuro non si sono accorti di lui.». Arthur li guardò entrambi, scettico.

Il fuoco era stato spento e tutti si erano svegliati per il trambusto.
Udirono le camionette passare ancora nella piazza e fermarsi. Voci dall'esterno, sembrava che quegli uomini volessero scendere dalle automobili a perlustrare a piedi il centro cittadino.

Uno dei bambini più piccoli cominciò a singhiozzare e una ragazzina gli tappò la bocca con la mano, facendogli cenno di calmarsi e di non fare rumore.

«Hai avuto un'idea del cazzo, Frandsen! - lo riprese Isairel, sottovoce – Era rischioso fin dal principio stare tutti assieme nella stessa stanza, te l'avevo detto!».

«Ci godi a dire così, Gates? Se avevi un'idea migliore perché non l'hai detta? Te ne sei... - Arthur si zittì per ascoltare i rumori all'esterno - Te ne sei rimasto zitto a frignare come una femminuccia e a dire solo quello che non dovevamo fare!».

«Adesso basta!», sussurrò uno dei ragazzini accanto a loro.

Udirono di nuovo delle voci e le camionette che venivano rimesse in moto. Ianco scivolò verso uno dei finestroni della stanza, sbirciando verso la piazza. Se ne stavano andando.

«Bene, fino al mattino allora faremo dei turni. Ti va bene questo, Gates? Perché tu sarai il primo.», decretò Arthur, con malcelato fastidio, tornando a coricarsi in un angolo, accanto alla sorella e al fratello.

Isairel si alzò, barcollando e tenendosi allo stipite della porta. Si scrollò di dosso le mani di Ianco, che sperava di aiutarlo.
Tenendosi al corrimano, scese una rampa di scale, in modo da avere una visione defilata della porta d'ingresso del municipio e della stanza dove gli altri riposavano.

Appoggiò la testa, ancora pulsante, al muro, per trovare sollievo. Il cuore martellava lento nel petto e i suoi occhi erano persi a fissare i decori in stucco del soffitto.
Ormai il suo sonno era del tutto svanito.

Una volta terminato il turno di guardia quella notte, si era messo a vagabondare per il paese, finendo quasi al limitare del centro abitato, lungo la strada che portava verso casa sua. O quello che ne rimaneva.

Deglutì saliva mista a tristezza, cercando di non pensare ai crampi allo stomaco e alla sete. Si passò le mani sul viso e tra i capelli, trovando più nodi che ricci.

Quando la luce dorata del sole lo accecò per un istante, capì che essere vivo, in quel momento, era un lusso che non avrebbe mai voluto avere.

L'alba, come il tramonto, avevano sempre avuto un fascino particolare per lui.

L'inizio e la fine del giorno racchiudono qualcosa di magico e spettacolare: colori simili, sfumature diverse; un bagliore rossastro come il sangue per il giorno morente e uno sfavillio dorato per il giorno che nasceva.

Anche quell'alba non era diversa, non era meno spettacolare.

Una leggera foschia avvolgeva i campi ed il blu e il lilla della notte lasciavano pian piano spazio al rosa e all'arancio. La falce di luna, ancora alta in cielo, stava per essere raggiunta da quelle sfumature delicate, pronta per scomparire.

L'alba aveva quel potere magico, la bellezza della natura rendeva splendidi gli orrori del mondo.

Inspirò e l'aria fresca entrò nei polmoni, facendolo subito tossire. La testa gli faceva ancora male dalla disavventura di quella notte, ma, tutto sommato era ancora intero e vivo.

Una lacrima gli scese lungo la guancia e Isairel si affrettò a toglierla col dorso della mano.

Cosa avrebbero fatto adesso? Dove sarebbero andati? In fondo erano solo dei ragazzini, senza più nulla, alcuni senza più parenti, come lui.

Si ripromise di non piangere più, di essere forte, come voleva suo padre, e con la testa sulle spalle, come lo ammoniva ogni volta sua madre. Eppure, si disse, a diciassette anni è difficile mantenere una promessa del genere.

Diede le spalle al sole e tornò verso la piazza, a cercare un po' di conforto nella solitudine altrui.

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