21. Frozen still with fear

Gli esseri umani dicono di essere dotati di libero arbitrio e di essere padroni del proprio destino.
Niente di più sbagliato.

Giorno 293

«Vi dovete allenare a osservare le persone e le varie situazioni che si creano attorno a Voi. Affinate le vostre abilità nel riconoscere ogni minimo cambiamento.».
Il Caporale aveva un tono basso e cantilenante mentre passava tra di loro a sistemare le posizioni della schiena, delle braccia, o delle gambe in tensione.
«Questa disciplina di meditazione aiuterà il vostro spirito a focalizzarvi sull'ambiente circostante, a riconoscere i cambiamenti. Potrete persino stupirvi di quanti ce ne siano e di quante possibilità possano offrire.».

Isairel, tuttavia, non riusciva a concentrarsi: perdeva l'equilibrio e, talvolta, dischiudeva uno degli occhi per osservare Ianco, a qualche persona di distanza.
Dopo l'addestramento nella foresta era tutto precipitato, anche il suo rapporto con lui.
Non riuscivano più a incrociarsi di notte e gli allenamenti si erano fatti duri ed estenuanti per entrambi.
«Non ho sigarette. Anche le guardie mi schifano, sono troppo stanco anche per loro.», gli disse sottovoce una volta a tavola il biondino, con una punta di sollievo nel tono.

Uno schiaffo gli arrivò tra le scapole, facendogli trattenere il fiato per il dolore.
«Ancora distratto eh, Gates?».
Il Caporale lo aveva sgridato per bene una volta di più in quella lezione.
Si morse il labbro per non rispondere e tornò a serrare gli occhi, cercando di riprendere la concentrazione.

La porta della stanza si aprì con uno scatto, rompendo il ritrovato momento di silenzio.
Il Caporale si mise sull'attenti. «Assistente Holmberg!».

«Riposo. Il Professore vuole che faccia rapporto. – prese il taccuino dalla tasca della giacca – Problemi? Segnalazioni?».
Lo sguardo ambrato dell'uomo saettò tra i ragazzi, incrociando gli occhi scuri di Isairel. «Qualche fastidio?», sibilò.

«Niente da segnalare, Signore.».

Holmberg si morsicò l'interno di una guancia, annotando qualcosa sulle pagine del suo immancabile taccuino, prima di chiuderlo con uno schiocco e decretare la fine della lezione.
«Milner, Gates, con me.».

I due ragazzi si guardarono, un brivido di paura li percorse entrambi mentre si avviavano dietro all'uomo sotto gli occhi curiosi di tutti gli altri allievi.

Ai tre si accodarono Frandsen e Wyatt, quei due erano l'ombra dell'Assistente e, spesso, il suo cruccio.
Adulti, indisciplinati e senza alcuno scrupolo. In altre circostanze, con un'età differente, sarebbero stati i soggetti perfetti.
In loro, tuttavia, sia Holmberg sia Vestergaard vedevano solo dei piantagrane e dei ragazzotti troppo arrabbiati ed irosi per poter diventare delle buone guardie o dei buoni soldati.
Logan Holmberg voltò appena il capo, ad osservare quel codazzo di ragazzini che si trascinava per i corridoi, maledicendo in cuor suo il Professore.

«Dove stiamo andando?», chiese Ianco, interrompendo il ritmo dei passi e piantandosi in mezzo al corridoio. Isairel lo strattonò per il maglione.

L'Assistente si fermò, proprio mentre Frandsen e Wyatt cominciavano a spingerli e a prenderli a male parole per farli proseguire.
La frase che seguì fece gelare il sangue nelle vene ai due ragazzini.
«Sezione 22.».




«Come procede il paziente?», chiese il Professore, accarezzando mollemente le spalle di Holmberg. Questi non rispose, limitandosi ad armeggiare col macchinario che aveva di fronte, mentre l'infermiere sistemava gli elettrodi sul torace del ragazzo.

Il vecchio professore alitò sugli occhiali, per poi pulirli con un lembo del camice. Aveva dato pieno potere all'Assistente ed ora, per un motivo forse celato tra i meandri della mente, se ne stava pentendo.
«Dimmi, Holmberg, perché hai deciso di portare anche lui?». Ancora muto.
Lo irritava particolarmente quando si comportava in quella maniera.
«Abbiamo già la nostra versione di prova.» disse in un soffio, inforcando nuovamente gli occhiali.

Davanti a loro avevano quel ragazzo, Ianco Milner, sedato e pronto per la terapia elettro-convulsivante.
Nella stanza accanto il giovane Isairel Gates, legato al letto, era in preda ad un delirio allucinogeno, incapace di distinguere tra percezione e realtà.

«Delmas, prendi il mio taccuino e scrivi: Ianco Milner è molto più collaborativo dopo una seduta con clonazepam zero-virgola-cinque milligrammi. Finora non ha manifestato effetti collaterali visibili. Si procede con TEC sessanta volt a zero-virgola-quindici ampere. Scarica a zero-virgola-zero-uno secondi...».

«Hai diminuito l'intensità di corrente.», disse Vestergaard, più a sé stesso che al proprio assistente.

«Anche lo scorso mese Gates ha avuto effetti collaterali con intensità maggiore. Il malessere si è protratto per più giorni. Sto cercando di ricondizionarli, non di ucciderli.»

Il professor Vestergaard misurò il riflesso pupillare del ragazzo.

«Professore, si allontani. Scarica in tre...due...uno...».


Giorno 301

L'Assistente Holmberg aveva cominciato ad affiancarlo sempre più spesso, impartendogli le sue massime di vita, dandogli piccole dritte, persuadendolo con parole pacate e cariche di aspettativa nei suoi confronti.

Lo detestava.
Lo odiava con ogni fibra del proprio essere, la sua espressione perennemente serafica lo mandava fuori di testa.
La parte peggiore di quell'uomo, però, era la sua propensione ad un sadismo sottile, maniacale: si divertiva a metterlo in difficoltà con tutti.

Frandsen e Wyatt, ancora suoi allievi e tirapiedi, in tutte quelle settimane non avevano fatto altro che tormentare lui e Ianco, arrivando anche alle mani con entrambi.
Holmberg, dal canto suo, interveniva solo in casi eccezionali. Se ne stava sempre a braccia conserte, defilato, a osservare la scena, che prevedeva spesso un pestaggio o una scazzottata.

Tutti i ragazzi si tenevano a debita distanza dalle tre guardie e, soprattutto, dai due malcapitati.

Si sentiva solo, estromesso da tutti, che lo vedevano come un appestato, come il giocattolo di quei tre.
E a nessuno piace un gioco usato.

Ormai era arrivato ad un punto in cui le sue fughe erano fatte più per disperazione, che per vera voglia di evadere.

Per quel nuovo periodo di isolamento avevano cambiato strategia e lo avevano sbattuto in un bugigattolo angusto, privo di aperture. L'unica luce, l'unico spiraglio d'aria veniva dalla fessura sotto la porta.

Aveva difficoltà a adattarsi al loro sistema. A tutti era stato chiaro questo fin da subito. Gli sembrò di essere rinchiuso lì dentro da una vita.
Se i suoi calcoli erano esatti e se non aveva perso il conto, in quel periodo doveva cadere la fine dell'anno.
In quel posto i giorni si susseguivano tutti uguali, nessuno festeggiava compleanni o feste nazionali. Niente.
Tutto sembrava essere impersonale. Forse doveva esserlo per davvero.
Isairel aveva tenuto il conto di ogni maledetto giorno in quell'Istituto e, anche adesso, sembrava che fosse l'unico pensiero che lo salvasse dalla pazzia.

Oltre le sbarre, oltre la porta blindata, quella luce lattescente voleva dire solo una cosa: neve.
Il giardino, il campo di addestramento, la foresta. Tutto sarebbe stato ricoperto da una spessa coltre di neve. Si ritrovò a sorridere, distendendo la pelle secca e screpolata delle labbra.

Le guardie non gli avevano portato né cibo né acqua nelle ultime ore e il fetore di urina secca e feci era opprimente.
Non riusciva a malapena a distinguere il mattino dalla notte, figurarsi scorgere l'alba o il tramonto. Ogni momento passava inondato da un'oscurità che non prometteva alcun soccorso.
Nei primi due giorni ci aveva provato, ma anche gridare era inutile: le pareti e la porta della cella erano troppo spesse perché i suoni sfuggissero.
Si chiese più volte se fosse da solo in quel luogo, se qualcuno stava soffrendo come lui, ognuno nella sua cella, ciascuno nel proprio dolore, affrontando i propri demoni.

Si sentì soffocare, portò la mano alla gola, cercando di deglutire un po' di saliva per trovare sollievo.
Era arrivato al punto di non ritorno, lo aveva capito: non avrebbe più sopportato un periodo lì dentro, forse anche più lungo.
La rassegnazione pesò come un macigno all'interno del suo petto. Si rannicchiò sotto la coperta, cercando di calmarsi.

"Le medicine! – pensò – mi servono le mie medicine.".
Si alzò di scatto e corse verso la porta della cella, picchiando furiosamente i pugni, urlando tanto da aver la gola bruciante e la voce arrochita. Il respiro si fece affannoso e il cuore martellava nel petto.

«Aprite! APRITE! Ho bisogno d'aria! APRITE! VI SUPPLICO! APRITE!».

Continuava a gridare, senza risultato. Cominciò a picchiare la testa contro la porta, il dolore alla fronte era più sopportabile dell'ansia che stava salendo.
Farsi del male era l'unico modo per capire di essere vivo, sveglio.
Boccheggiò dopo un colpo dato con troppa violenza e si accasciò accanto alla porta serrata. «Aprite! Aprite...».

Si portò le mani al volto, trattenendosi dal graffiarlo. Spalancò gli occhi, ma trovò solo oscurità.
Un ultimo urlo e poi scoppiò in un pianto disperato. «Vi prego... Aprite... Non scapperò più. Lo giuro...».



Le grida e i pianti del ragazzo riempivano il corridoio, aveva una voce fastidiosa e rauca che si sarebbe potuta sentire fino in mensa, se non avessero deciso di insonorizzare quelle stanze.
Ne aveva abbastanza di quelle suppliche per quel giorno.

Si umettò le labbra, sistemandosi il cavallo dei pantaloni dell'uniforme, diventato improvvisamente stretto e scomodo.

Si staccò dal muro, percorrendo a passo leggero il corridoio che lo separava dall'uscita.
Ancora prima di arrivare nel cortile si accese una sigaretta e ne prese una profonda boccata.
Il fumo lo avvolse e tracciò i contorni delle sue spalle mentre si muoveva.

L'aver lasciato fare tutto a quel vecchio aveva rallentato le cose.
«Settanta giorni e ancora nessun progresso. Siamo più lenti del previsto.» mormorò, sfogliando il taccuino che portava sempre con sé.

La neve cadeva silenziosa in grossi fiocchi, ricoprendo tutto ciò che incontrava.
Holmberg alzò il volto al cielo lattiginoso e tirò fuori la lingua, catturando alcuni fiocchi di neve come fanno i bambini.
"Vecchio pazzo... - pensò – Se avessi lasciato fare a me, saremmo già operativi.".

Il pensiero delle suppliche di Isairel gli procurò un brivido lungo il collo, che prontamente si massaggiò, stiracchiandosi piacevolmente.
Gettò la sigaretta a terra, tornando verso la cella.
Diede due giri di chiave e la serratura scattò.

Quell'ammasso di carne e coperte non si mosse, neppure quando spinse il vassoio con la cena all'interno della cella, troppo debole anche solo per mettersi in ginocchio, figurarsi se poteva scappare in quelle condizioni. Una settimana di isolamento al buio avrebbe provato il fisico di chiunque. Dello spirito non ne parliamo.
I suoi occhi ambrati s'incupirono. «Gates. Alzati.».

Chino sul ragazzo, riuscì solo a vedere i suoi occhi scuri, arrossati dal pianto.
Si allungò appena e gli porse un bicchiere d'acqua e una piccola pastiglia bianca.
Holmberg sfoderò il suo migliore e più accattivante sorriso.
«Sono qui per aiutarti.».

Isairel mugugnò, strisciando via da lui come meglio poteva.
Scosse un poco il bicchiere e gli fece vedere la pillola. «La tua medicina, ricordi? Stai avendo un attacco di panico, vero?».
Il ragazzo moro non rispose.
L'Assistente polverizzò la pastiglia nell'acqua, facendo in modo che si sciogliesse.
Quando Isairel si accorse che l'uomo non aveva cattive intenzioni, gli si avvicinò afferrando il bicchiere e bevendone il contenuto tutto d'un fiato, prima di gettarsi sul cibo come un animale.

Si allarmò solo quando udì la porta chiudersi a chiave. Alzando la testa verso l'Assistente lo vide sfilarsi la cintura di pelle ed allentarsi il colletto della camicia con due dita, deglutendo visibilmente.
Il ghigno sul suo volto fece solo da cornice alle sue parole.

«Tranquillo, rilassati. Continua a mangiare. Io aspetterò che lo zolpidem faccia il suo effetto.».

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