29. A vision of a brighter future
Anno 1 – giorno 125
Lo trovò in piedi, accanto alla terra smossa.
Non era difficile notare la sua massa di capelli scuri che ondeggiava al vento in mezzo al verde chiaro delle graminacee.
«Ancora qui, Gates?».
Quel ragazzo, dopo la morte dell'amico, si era recato con costanza dove Ianco era stato sepolto. Ci andava dopo la terapia del mattino, saltando la colazione.
Il ragazzo aveva gli occhi fissi sulla terra, la mente persa in chissà quali pensieri, tanto da non udire la domanda dell'Assistente, che gli toccò la spalla per attirare la sua attenzione.
Il ragazzo trasalì. «Scusi, non l'ho sentita. Potrebbe ripetere per favore?».
La morte di Milner lo aveva reso stranamente docile e remissivo, come se avesse perduto ogni carica vitale.
Holmberg non udiva mai un pianto né aveva più visto nei suoi occhi commozione per l'amico perduto.
Neppure rabbia verso di lui o verso Frandsen, che ancora lo seguiva come un cane.
Gates era rassegnato.
Aveva abbandonato l'atteggiamento arrogante dopo la sera del poligono e, per quei pochi giorni, non aveva più preso parte alle esercitazioni del Caporale Basha.
«Credo sia ora di finirla, signor Gates. Questa situazione è insostenibile.».
Il ragazzo non lo degnò di uno sguardo. «Insostenibile per chi? Per lei? Per me e per gli altri ragazzi?».
La sfrontatezza e la lingua tagliente ogni tanto tornavano fuori e davano a Holmberg l'illusione di aver risvegliato qualcosa in lui. Fosse anche un solo barlume di odio.
«Insostenibile per tutti, sta dando il cattivo esempio agli altri ragazzi e, in questo Istituto, la cosa non è tollerata. Poteva andare bene una ventina di giorni fa, una settimana fa. Adesso riteniamo che il suo comportamento sia andato oltre-».
«Oltre a cosa? – si voltò verso l'uomo – Che limite ho superato adesso? Ho partecipato alle lezioni, agli allenamenti, alle terapie! Il limite è saltare la colazione? Oh andiamo, Holmberg!» e lo vide alzare le mani, spazientito, mentre, con passo incerto, se ne tornava verso il poligono.
L'Assistente si passò una mano tra i capelli, cercando di sistemarli, contro il lavorio del vento. «Io so cosa vuoi, Isairel, ma non sei ancora pronto.».
Vide il moro voltarsi di scatto. «Ah sì? E sentiamo, cosa vorrei di preciso?».
Holmberg attese e gli sorrise. «Tu vuoi Frandsen.» e lo vide irrigidirsi.
Quel ragazzino era come un libro aperto per lui.
«Tu vuoi Frandsen. E io te lo servirò su un piatto d'argento. Credimi, a tempo debito lo farò.».
Mentre si allontanava, Isairel si chiese come mai Holmberg avesse riservato quel trattamento solo a Wyatt.
Sapeva che lui era una pedina e sapeva bene che la sua promessa su Frandsen non sarebbe mai stata mantenuta.
Ogni volta che vedeva il biondino al fianco dell'Assistente, sentiva il disperato bisogno di mettergli le mani addosso.
Persona più meschina di lui non esisteva.
Aveva ucciso di botte Ianco e aveva venduto il proprio compagno d'armi per una dimostrazione di pura crudeltà.
Ciò che lo mandava fuori di testa, era il sorrisetto beffardo perennemente stampato sul volto di quel coglione, come a voler dimostrare a tutti di essere intoccabile.
Se la morte di Ianco era stata, per gli altri ragazzi, fonte di sgomento, quella di Wyatt aveva destato sollievo, contribuendo ad aumentare chiacchiere e pettegolezzi, proprio sul conto di Ianco.
«Gates!».
All'udire l'Assistente fermò i propri passi. «Cosa vuole ancora? Sto andando a fare colazione.».
Il rosso lo oltrepassò, precedendolo verso il corpo centrale dell'Istituto. «Dopo colazione vada nello studio di Vestergaard.».
Quell'ufficio odorava sempre da stantio. Ogni volta che ci aveva messo piede sentiva odore di chiuso, di sigaro e di vecchio.
Vestergaard lo aveva fatto rimanere in piedi, impalato di fronte alla porta chiusa, mentre finiva di leggere un documento, che sembrava catturare tutta la sua attenzione.
«Holmberg mi dice che ha saltalo la colazione nell'ultima settimana.», asserì dal nulla il Professore.
«Sissignore.».
Lo scrutò da sopra gli occhiali, ancora chino sui fogli che stava leggendo: «Motivo?».
«Commemorazione, Signore.».
Il vecchio alzò la testa e lo fissò. Gli occhi grigi dell'uomo lo squadrarono da capo a piedi. «Commemorazione?».
Il ragazzo annuì.
Isairel era agitato. Forse si aspettava di vedere Holmberg in quell'ufficio ed essere da solo con il Professore gli dava un senso di profonda inquietudine.
Il vecchio si pizzicò la sommità del naso con le dita, come a lenire un fastidio. "Avevo detto a quel cretino che non era una buona idea...", pensò spazientito, tornando a guardare il ragazzino impaurito.
«Si sieda, Gates...» e con un gesto della mano l'invitò ad accomodarsi su una delle poltroncine della scrivania.
«Che cosa vuole da me, Signore?».
La sua voce era un suo sussurro appena udibile: «Milner è morto da due settimane e lei va ancora... Ah! Lasciamo perdere!».
Annotò qualcosa su un piccolo foglietto, prima di alzarsi dal proprio posto e raggiungere Isairel, facendogli alzare la testa ed ispezionandogli il volto, allargandogli le palpebre, voltandogli la testa da un lato all'altro. «Devi tagliare i capelli.».
«Sissignore.».
Gli prese un braccio, ne tastò il bicipite e la spalla. «E non saltare la colazione. Tendi a perdere peso in fretta e rischi di compromettere la massa magra.».
«Sissignore».
L'uomo tornò alla scrivania, continuando ad annotare qualcosa sul foglietto. «Dopo le lezioni andrai dalla dottoressa Klotz. Questa storia della commemorazione di Milner sta andando per le lunghe.».
«Sta parlando della professoressa Klotz? Di psicologia?».
Il mugugno di Vestergaard rispose alla sua domanda, prima di invitarlo ad uscire dallo studio.
«Cosa vuole sentirsi dire? Che non voglio stare qui?».
Sul volto della dottoressa Klotz si dipinse un alone di divertimento.
La dottoressa Amanda Klotz, unica insegnante di sesso femminile nell'istituto, era una donna lievemente in carne, dai capelli canuti e sempre ben pettinati in vaporosi boccoli. A tutti i ragazzi dava l'idea di una nonna severa, di quelle che ti rimproverano con un singolo sguardo, anche senza parlare.
Mentre ascoltava le rimostranze del ragazzo, aveva continuato a giocherellare con le perle della propria collana, arricciando le labbra di tanto in tanto, osservandone le espressioni facciali da dietro gli spessi occhiali ambrati.
Il primo colloquio era sempre così: il paziente descriveva il problema e lei iniziava a valutare il grado di suscettibilità all'ipnosi.
Vestergaard le aveva assicurato che quello era il candidato ideale.
«Assolutamente no. Quello lo vedo da me: le braccia incrociate ti fanno da scudo, sei mezzo rannicchiato, tamburelli il piede con impazienza. Sei un libro aperto per me, Isairel».
Il ragazzo fermò il piede e si mise composto sulla poltroncina, come se quel gesto potesse impedire alla donna di leggerlo così bene.
«Perché è passata a darmi del tu?».
«Qui sono la tua terapeuta e posso farlo. E tu puoi chiamarmi Amanda. Le formalità in questi casi servono solo a sollevare muri troppo alti da scavalcare e troppo spessi da abbattere.».
La donna annotò qualcosa su un taccuino. «Direi che per oggi possa bastare. Domani sarò qui molto presto. Vorrei che proseguissimo la nostra chiacchierata subito dopo la colazione, prima delle lezioni».
Isairel aprì bocca e la richiuse subito, senza emettere alcun suono. Quell'arpia aveva scelto un orario infame. Sarebbe passato a salutare Ianco al tramonto.
La terapia del mattino era diventata più pesante e ne usciva intontito.
La profess- Amanda aveva cominciato con la psicoterapia e, pian piano, con brevi sedute di ipnoterapia.
Attendeva il loro appuntamento come si aspetta un regalo.
La voce della donna era calma, pacata e lui si abbandonava a un rilassamento totale sul lettino del suo studio. Le sue cure riuscivano ad alleviare i sintomi delle terapie del mattino e l'indolenzimento degli allenamenti.
Gli aveva insegnato tecniche semplici per brevi momenti di trance o per addormentarsi più facilmente, per poter dismettere il blando ansiolitico che prendeva prima di coricarsi.
«Sai, Isairel, – gli disse la donna quella mattina – la mente è capace di condizionare il corpo: quando la tua mente sviluppa un'immagine tanto forte e chiara da sviluppare l'attenzione verso l'interno e farti avere una reazione fisica, quello è uno stato ipnotico. Gli stati di modificazione di coscienza sono utili nei casi come il tuo, per superare lutti o traumi.».
Era molto precisa e provava un certo gusto a spiegargli per bene cosa sarebbe andata a fare durante la seduta: un rilassamento piacevolissimo, semicosciente oppure un viaggio a ritroso nel passato, nella sua infanzia.
«Ti lascio questo.», gli fece, al termine della seduta.
«Cosa sarebbe?», chiede il moro, prendendo quel piccolo aggeggio dalle mani della donna.
«Si chiama lettore multimediale. Ne avevi mai visto uno prima?».
Isairel si ritrovò ad arrossire di colpo, vergognandosi incredibilmente della propria ignoranza. «Solo sul libro di tecnologia.».
La donna gli sorrise, benevolmente, capendone l'imbarazzo e spiegandogli come funzionava, consegnandogli anche un paio di cuffiette.
«Usalo per addormentarti. Lascia stare le pillole, per quelle parlo io col Dottor Vestergaard. Metti le cuffie e accendilo... Qui... Prima di metterti a dormire. Segui la voce e rilassati. Ti consiglio di ascoltare ad un volume basso, la voce deve essere appena udibile. E, credimi, è mille volte meglio degli esercizi che ti ho insegnato l'altro giorno!».
«Sissignora!».
Amanda Klotz rise della goffaggine e dell'imbarazzo di quel ragazzo, che continuava a ringraziarla anche mentre usciva dalla porta dello studio, con un piccolo tesoro tra le mani.
La riprogrammazione mentale si fondava (e si fonda tutt'ora) sull'assunto che qualunque affermazione, se ripetuta nel tempo, si installa nel subconscio generando una credenza che va a radicarsi nella nostra mente profonda.
In base al tipo di informazioni fornite in maniera ripetitiva, verrà generata una credenza, positiva o negativa.
Il subconscio è un esecutore, e la mente umana gli fornisce le istruzioni con cui agire, con i pensieri e le parole ripetute nel tempo.
L'ascolto passivo durante il sonno permette di bypassare la coscienza e permettere al subconscio di continuare a recepire i messaggi che gli vengono forniti.
Queste, però, erano cose che Isairel ignorava completamente.
Anno 1 - giorno 140 - mattino
Dormiva stranamente bene in quei giorni.
Aveva concordato con uno dei dottori di dismettere a poco a poco i sonniferi, perché la terapia della professoressa Klotz stava dando giovamento.
Anche la terapia del mattino, quella contro gli attacchi di panico, cominciava ad essere meno pesante. O, forse, lui stava cominciando a sopportarla meglio: non vomitava più né aveva nausea per buona parte della mattinata e si sentiva meno intontito. Era tornato anche a fare colazione con regolarità.
Le prove fisiche, invece, erano diventate una vera agonia.
Per quanto si fosse orma abituato a quelle estenuanti sessioni di allenamento, Isairel non riusciva più a sostenere quel ritmo.
Indolenzito dalla giornata, si era ritrovato a non avere voglia di ascoltare ancora quelle registrazioni e il sonno sembrava averlo abbandonato, lasciandolo a fissare il soffitto della propria stanza, alla ricerca di risposte.
«Ti invidio, Ian...», sussurrò, come a voler riempire il silenzio di quella notte solitaria. «Almeno tu sei libero.».
Si voltò su un fianco, provando a chiudere gli occhi e a rilassarsi, concentrandosi sul proprio respiro.
Ciò che aveva visto e vissuto, però, vorticava pericolosamente nella sua testa, scavando nella memoria.
Tutto l'orrore subito lo fece alzare dal letto, disgustato da quella sua ultima parte di vita.
E fu come se il prima fosse stato annullato da un anno e mezzo d'inferno.
Si vestì e attese l'alba seduto alla scrivania, chino sul libro di geopolitica a studiare.
L'arrivo del mattino lo rincuorò, così come la serratura della stanza scattare.
Anno 1 - giorno 141 - alba
«Già in piedi, Gates?».
La presenza di Holmberg sulla soglia della stanza era diventata ormai un rito, un'abitudine, e percorrere con lui i corridoi fino alle porte della sezione 22 non gli metteva più così tanta ansia.
«Signore...».
Il rosso mugugnò, lanciandogli un'occhiata sfuggente da sopra la spalla. La differenza tra le loro altezze stava diminuendo e se ne accorse solo in quel momento.
«Ho sentito delle grida l'altro giorno.».
«Grida?».
Isairel annuì: «Grida, urla. Di persone disperate.».
Isairel non aveva mai fatto domande e, dopo le terapie del mattino, oltre alla nausea e allo stordimento, aveva i ricordi offuscati.
Holmberg rimase in silenzio per qualche passo. «Era la proiezione di un film. Alcuni ragazzi sono costretti a letto.».
Isairel gli afferrò la manica della camicia chiara della divisa: «È la verità?».
Lo sguardo di Holmberg non ammetteva repliche. «Sì. E adesso veda di non farmi altre domande idiote e mi segua.».
Si alzò dal lettino combattendo contro un capogiro, si prese la testa fra le mani, nel vano tentativo di fermare quella sensazione.
Holmberg si stava sfilando i guanti per annotare qualcosa in un taccuino.
«Per quanto durano i capogiri?», gli chiese, atono.
«Di solito qualche minuto. Oggi non ho la nausea.».
L'Assistente mugugnò, tornando a scrivere.
«La terapia della dottoressa Klotz? La sta proseguendo?».
«Sì, ma perché oggi tutte queste domande?», chiese, cercando di rimettersi in piedi, aggrappandosi saldamente al materasso per sicurezza.
Holmberg sbadigliò, strofinandosi un occhio col dito da sotto gli occhiali. «Vestergaard vuole che lei inizi oggi un percorso nuovo.».
Isairel aggrottò le sopracciglia. «Un percorso nuovo? Per cosa? Ho questa terapia per gli attacchi di panico e quella di Amanda pe-».
«Amanda?».
«L-la professoressa Klotz!».
Un piccolo sorriso incurvò le labbra dell'Assistente. «Amanda... Capisco. Beh, oggi, dopo gli allenamenti proveremo qualcosa di diverso, signor Gates» e gli mise una mano sulla schiena, sospingendolo verso la porta dell'ambulatorio in cui si trovavano.
Si asciugò il sudore sul bordo della maglietta. Il Caporale li aveva fatti sgobbare come muli, allestendo un percorso ad ostacoli nel campo vicino al poligono. Percorso che, a quanto pareva, sarebbe diventato fisso, come una tappa obbligata di riscaldamento prima dei combattimenti corpo a corpo, com'era avvenuto quel giorno.
Vide il Caporale parlare con Holmberg, in lontananza e guardare poi nella sua direzione.
Basha era infastidito, lo si vedeva da come calcava i passi mentre gli si avvicinava, sbraitando il suo cognome. «Andiamo, Gates! Non startene lì impalato. Fuori dai coglioni!».
Con passo stanco si diresse verso Holmberg, che lo attendeva a braccia conserte. Dietro di lui Frandsen, che lo squadrava con fastidio. Holmberg gli disse qualcosa, prima che si avvicinasse e Arthur si allontanò, sotto lo sguardo corrucciato di Isairel.
«L'ha mandato via?».
Holmberg lo squadrò: «Può pensare ciò che vuole di me, Gates, ma ho delle linee da rispettare e Frandsen non fa parte di queste. Oppure voleva che rimanesse?».
Isairel guardò l'ago penetrare la carne dell'avambraccio. Quella farfallina e quel tubicino gli ricordarono la flebo che aveva Ianco...
Strinse gli occhi e si sforzò di non piangere. Quando poi li riaprì, notò la figura slanciata di Holmberg, appoggiato al muro della stanza a braccia incrociate.
Ultimamente lui lo seguiva come un'ombra, come a volerlo rassicurare di qualcosa, forse a farlo sentire meno solo, meno in trappola.
«Il siero di stimolazione è pronto.» e Holmberg annuì all'infermiere, prima che questi aprisse la valvola della fleboclisi e il liquido azzurrognolo percorresse tutta la cannula fino a scomparire all'interno dell'ago.
«Che c'è di diverso dal solito?», chiese Isairel con una punta di curiosità nel tono.
Holmberg si era staccato dal muro. «Vogliamo sostituire la TEC del mattino con questa.».
Il moro lo osservò con curiosità. «Oh... Tu vuoi davvero sapere come funziona, vero?».
«Penso di averne diritto, non crede?».
Holmberg gli lanciò un'occhiata sfuggente mentre si levava gli occhiali e si stropicciava le palpebre con le dita, esausto.
Sbadigliò prima di rispondere: «La miscela contiene tiopentale sodico. Serve a farti rilassare. Tra un po' ti sentirai stanco, cadrai in una sorta di dormiveglia. Funziona un po' come i sonniferi che prendevi all'inizio. Il tuo stato di prossimità al sonno mi permetterà di avere da te delle risposte date dal tuo subconscio.».
«Perché?».
«Perché voglio che tu sia limpido nelle risposte che mi darai, senza condizionamenti, senza preconcetti o pregiudizi.».
Isairel era scettico. «Risposte a che domande?».
«Su di te, su quello che provi, su come ti senti. È un modo per capire da dove derivano i tuoi attacchi di panico, soprattutto quelli forti come l'altra settimana.».
Isairel si guardò le mani, sentendo la testa pesante. «Se serve a evitarmi quella merda del mattino... Proviamo.».
Holmberg prese il proprio taccuino, sedendosi accanto al ragazzo e sorridendo, sornione. «Non avresti comunque scelta.».
«Adesso, prova a parlarmi del tuo ultimo isolamento. Ricordi qualcosa?».
Isairel aveva gli occhi socchiusi e scuoteva la testa contro il cuscino. Biascicava e Holmberg a volte faceva fatica a capire ciò che diceva.
«Ti ricordi cosa provavi?».
«Solitudine.».
«Solitudine?»
«Sì... Solitudine...». Il rosso tornò a scrivere sul proprio taccuino. «E paura.».
I suoi occhi ambrati fissarono il ragazzo che si muoveva, portando le gambe al petto e rannicchiandosi su un fianco, tirando appena la cannula della flebo.
Mentre Holmberg si sporgeva per chiudere la valvola del flusso, lo incalzò: «Paura? Dimmi, di che cosa avevi paura?».
«Di stare da solo... Di morire da solo... Dei topi...».
Holmberg lo guardò meglio: le guance arrossate, la fronte aggrottata e imperlata di sudore, gli occhi stretti e una smorfia che gli increspava le labbra.
Pareva che a tratti tremasse, come se quello e la sudorazione fossero effetti collaterali del farmaco. Forse era per quello che si era rannicchiato, colto da improvvisi brividi.
Si scoprì a pensare di allungare una mano, asciugargli la fronte col fazzoletto, ma quel pensiero si sgretolò all'istante, costringendolo a sedersi nuovamente e a prendere appunti.
«Perché avevi paura di morire, Isairel?».
«Perché c'era buio. E freddo. Buio e freddo sono come le mani della morte...».
«Chi te l'ha detto?».
«Mamma... Mamma tiene sempre tutto caldo... Il cibo, la casa... Anika. Mamma mi fa scaldare le mani quando torno dai campi...».
Holmberg si sistemò gli occhiali sul naso, prima di allungarsi di nuovo su di lui a chiudere la flebo e a staccare l'ago a farfalla dal braccio. «Mamma è morta. Lo sai?».
«Sì, lo so. Mamma era fredda.».
Tornò a sedersi. «Ricordi altro? Della cella intendo.».
Isairel aveva serrato gli occhi e portato la testa al petto, tremando ancora per qualche istante. Mormorò qualcosa, sembrava delirare sottovoce.
«Acqua. Acqua fresca e cibo tiepido... Un buon odore... Solo paura di morire.».
Holmberg si accigliò: «Dolore? Sentivi dolore fisico?».
«No... Dolore no...solo passare dal freddo al caldo... Avevo tanto caldo e stavo bene.».
Lo vide portarsi le mani in mezzo alle gambe e rigirarsi, strofinando le gambe tra di loro, emettendo uno strano mugolio.
Isairel cominciò a strofinarsi l'inguine, prima di infilare una mano all'interno dei propri pantaloni, forse per cercare sollievo.
Holmberg si fermò per qualche secondo a osservare con compiacimento quello spettacolino non previsto. Tuttavia, per quanto la scena lo eccitasse (e la sua parte irrazionale glielo stava urlando chiaramente), s'impose di chiudere il taccuino, abbandonandolo a terra, per andare a bloccare il ragazzo e assestargli un paio di schiaffi sul volto, prima che quella seduta degenerasse definitivamente.
«Andiamo, Gates! La terapia è finita. È ora di svegliarsi mia bella addormentata!».
Anno 1 – giorno 151 - alba
Negli ultimi giorni di terapia, Holmberg passava al mattino presto, bussava solo alla porta della stanza e lo precedeva nei corridoi, silenzioso, con le mani raccolte dietro la schiena. Poi lo veniva a riprendere e lo scortava in refettorio, assicurandosi che consumasse la colazione con gli altri.
In realtà Isairel stava sempre da solo, in disparte come un appestato. Ogni tanto era Pedersen che si avvicinava e consumava i pasti con lui, ma Isairel sapeva che era per pura e semplice curiosità.
«Anche io come te sto facendo una cura. Sono asmatico, senti?», gli aveva detto il biondino una volta, in uno slancio confidenziale, mentre masticava a bocca aperta una fetta di torta.
Ma per quanto Pedersen tentasse con lui un approccio, Isairel rimaneva "quello strano", quello che stava sempre per le sue. Il cocco dell'Assistente, come l'avevano chiamato una volta, lanciandogli del fango addosso.
«Avresti potuto reagire», gli fece Holmberg il mattino successivo a quell'episodio, mentre si sedeva accanto a lui per la loro seduta.
Isairel aveva alzato le spalle sostenendo che non ne sarebbe valsa la pena.
«Bene. Oggi è l'ultimo giorno».
Isairel si fermò, con i piedi a mezz'aria tra il lettino e il pavimento, guardando quasi incredulo l'infermiere che stava arrotolando i cavi degli elettrodi.
«Non guardarmi così, ragazzino. Ordini di Vestergaard.».
Negli ultimi giorni la terapia del mattino con la TEC era intervallata dalle sedute di stimolazione cognitiva di Holmberg e gli effetti collaterali erano sempre più ridotti.
L'Assistente aveva smesso di assistere ai suoi elettroshock e si concentrava molto quando invece si vedevano. Lui lo scortava e basta ed era strano non vederlo più sistemare gli elettrodi o avere la sua mano che lo aiutava a rimettersi in piedi dopo le scariche.
Rimase seduto sul lettino mentre l'infermiere trafficava attorno a lui con attrezzature e carrelli.
Si osservò le mani: i calli si stavano pian piano riducendo, ma le nocche arrossate e la pelle secca tra le dita lo infastidivano. Strofinò tra loro i palmi, percependone la ruvidezza.
C'era anche qualcun altro che le aveva avute così ruvide e gli mancava. Sentiva un vuoto al centro del petto, come un dolore cronico che non voleva attenuarsi.
«Un giorno come un altro...», sussurrò, stringendo i pugni, sentendo la pelle tirare.
Fu la voce aspra dell'infermiere a riportarlo alla realtà: «Vuoi mettere radici, giovane? Fuori di qui!», gli fece, mentre lo strattonava per un braccio e lo faceva scendere dal lettino.
Isairel si accorse solo in quel momento che Holmberg lo stava attendendo sulla soglia della stanza, silenzioso come sempre.
Cacciò le mani nelle tasche dei pantaloncini e seguì l'Assistente fino al refettorio, dove molti ragazzi si stavano già alzando e uscendo dopo la colazione.
Come era solito fare, Isairel si sedette su un tavolo defilato, il vassoio di fronte a sé conteneva caffelatte d'orzo, uno yogurt e i soliti sei biscotti insipidi all'avena.
Sospirò mentre mescolava lo zucchero nella brodaglia insapore.
Gli occhi pizzicavano e deglutì a vuoto per non piangere.
«Beh... Auguri a me allora...», sussurrò prima di affondare il cucchiaino nello yogurt e portarlo alle labbra.
La sua attenzione venne tuttavia catturata dalla mano pallida e piena di lentiggini di Holmberg, che gli stava allungando sul tavolo una fetta di torta su un piattino.
«Metti giù quella merda e mangia la torta, Gates.», gli fece l'uomo, con un tono asciutto e tanto risoluto da non ammettere repliche, prima di affondare la forchetta nella propria fetta.
L'Assistente aveva preso posto di fronte a lui e i suoi occhi ambrati lo scrutavano e lo incoraggiavano a consumare quella leccornia, come lui stava già facendo.
«Perché si siede con me?».
L'uomo voltò la testa per guardarsi attorno: «Non c'è più nessuno, di che cosa si preoccupa?».
Isairel osservò con diffidenza la torta: profumava di cioccolato e sembrava ancora tiepida, come sfornata da non molto.
«Niente...è che non si è mai seduto con me...».
«Se la cosa la infastidisce, mi alzo...».
«NO! Vo-volevo dire che può restare...» e Holmberg gli rivolse un sorriso di scherno.
«Gentile da parte sua, Gates!».
Il rosso notò un'ombra cupa sul volto del ragazzo e lo incalzò: «Mangi pure, non è avvelenata.», tentò, con un tono calmo e più morbido del solito, addentando un'altra forchettata.
Il moro si passò velocemente una mano sulla guancia per far sparire una lacrima solitaria, pregando che l'Assistente non l'avesse notata.
Prese una forchettata del dolce e la assaporò, come se fosse l'ultimo pasto di un condannato a morte.
Continuava ad avere gli occhi lucidi e tirava su col naso ad ogni boccone, sforzandosi di non piangere, rosso in volto per l'imbarazzo.
Per Holmberg sembrava quasi tenero in quel suo improvviso crollo emotivo ed era divertente per lui osservarlo.
Aveva un vago ricordi di sé stesso da giovane, del sé stesso di prima, ma era sicuro che, in un qualche periodo della propria vita, il suo io giovane, adolescente, avesse sperimentato un momento di simile smarrimento.
«Tutto passa, Isairel. Credimi...».
Il moro piantò gli occhi scuri nei suoi, temendo di aver udito male. «Che cosa?».
«Questo. L'emotività, lo smarrimento, l'inadeguatezza. Tutto passa. E troverai il modo di ridere delle tue disgrazie quando sarai grande.».
Isairel gli domandò il perché di quella frase, di quel consiglio non richiesto e lo osservava terminare il dolce con estrema calma. «Davvero... Che senso ha quello che mi ha detto?», lo incalzò.
Lo seguì con lo sguardo, mentre ritirava i piattini ormai vuoti.
«Avrà senso, prima o poi...» e lo vide sfilare tra i tavoli fino alle cucine.
Isairel bevve il caffelatte controvoglia, abbandonando sul vassoio yogurt e biscotti, prima di andare a riporre tutto sulla rastrelliera.
Holmberg lo attendeva, ancora una volta, dalla porta del refettorio, bloccando poi la sua uscita con una presa salda sul suo braccio.
«Verrà ad allenarsi con me. Le sue lezioni sono sospese oggi. Le do un massimo di dieci minuti per andarsi a lavare e cambiare, la attendo in palestra puntuale.».
Isairel annuì, ma l'Assistente non sembrava volergli lasciare il braccio. «Sì, Signore?».
«Si tolga quell'espressione contrita dalla faccia. Non voglio musi lunghi: la mia giornata è già iniziata male – con due dita gli sollevò gli angoli della bocca – Voglio vedere un sorriso su questo bel faccino!».
Isairel si sforzò di fare come gli imponeva Holmberg, ma la sua andatura e la postura tradivano ciò che realmente provava.
La voce alta alle sue spalle lo fece voltare. «Sì, signore?»
Un sorriso illuminò il volto di Holmberg e questo fece rabbrividire il giovane.
«Buon compleanno, Isairel».
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