7. Crack themselves
Giorno 6 - h 05:43
Non si era ancora abituato all'idea di averli così corti. Pur essendo stato risparmiato rispetto ai compagni, la lunghezza di quei capelli lo faceva sembrare ancora più piccolo, rispetto alla sua vera età.
Si sciacquò velocemente il sapone dal viso con l'acqua gelida, prima che gli occhi prendessero a bruciare troppo.
Si tamponò il viso e guardò nuovamente il proprio riflesso, spostando istintivamente l'attenzione sulle crosticine che aveva ancora sulle guance. Le sfiorò con i polpastrelli, avvertendone la ruvidezza, mentre un senso di nausea s'impossessava del suo stomaco. L'infermiera che lo aveva soccorso qualche giorno prima gli aveva assicurato che non sarebbero rimasti segni. Quando sarebbero guariti del tutto quei graffi?
Spostò l'attenzione sul bordo dello specchio: sul muro erano state incise delle piccole tacche, quasi passavano inosservate da un occhio poco attento.

Alle cinque già presenti ne aggiunse una sesta, perdendo poi lo sguardo oltre la finestra del bagno. Non riusciva ancora a dormire bene, seppure al sicuro. E quella levataccia ne era la prova.
Sentiva un lieve russare provenire dallo stanzone, ma non ci fece caso, perché non era quello che lo teneva sveglio. Tutto quello che era accaduto negli ultimi giorni e che gli aveva sconvolto la vita ora gli rendeva il sonno leggero, agitato e ricco di incubi.
Da due giorni il mal di testa lo accompagnava costantemente, come una presenza silenziosa e fedele, a tratti più intensa e prepotente.
Osservò di nuovo il proprio riflesso nello specchio, la luce giallastra della lampadina creava delle strane ombre sul volto. Si perse nella profondità degli occhi scuri che lo fissavano. Due aloni bluastri al di sotto delle palpebre inferiori gli davano un'espressione sinistra e il gioco di ombre sul suo volto lo fece tramutare prima in una creatura dalla bocca larga e poi in mostro scuro dalla faccia allungata.
Batté più volte le palpebre, per cercare di riprendersi dalla catalessi in cui stava finendo.
La pelle delle braccia si accapponò lievemente e un brivido s'incastrò tra le scapole, facendolo trasalire del tutto.
Il buio, fuori, stava diminuendo e il cielo bluastro si tingeva lentamente di viola e arancio. Tra un po' ci sarebbe stata una nuova alba e lui non l'avrebbe vista.
Un moto di tristezza lo avvolse, ripensando all'ultima alba che aveva visto, sulla strada di Ibion, appena qualche giorno prima.
Per quanto tempo sarebbero dovuti restare in quel posto? Tra qualche mese avrebbe raggiunto la maggiore età e si chiese se lo avrebbero lasciato andare.
Poi gli venne in mente Arthur Frandsen che, con i suoi ventidue anni, era ormai un uomo. Perché trattenevano anche lui? Perché non avevano affidato alle sue cure il fratello e le due sorelle e avevano trasferito tutti lì?
Si prese la testa tra le mani, grattandosi nervosamente tra i capelli, prima di tornare silenziosamente al proprio letto.
Che fare?
Giorno 6 - h. 07:45
«Questa poltiglia fa schifo!». Ianco si era seduto con un tonfo sulla sedia e, come quasi sempre accadeva, era come se gli leggesse nel pensiero.
«L'inserviente ha detto che è porridge.».
«Io me lo ricordavo diverso. - la sua espressione era un programma – Neanche ai miei maiali davo una brodaglia simile!». Isairel fece uno scatto a coprirgli la bocca con la mano.
«Non dirlo a voce troppo alta!». Molti dei ragazzi si erano già girati verso di loro.
Lasciò libera la bocca dell'amico: «Non è corretto, Ianco.».
«Ti chiamerò Isairel il Giusto! Ma scusa, non posso nemmeno esprimere la mia opinione adesso?».
Il moro roteò gli occhi, inserendo una cucchiaiata di porridge in bocca, sforzandosi di deglutire subito per contrastare la consistenza di quella poltiglia insapore. Prese un sorso di caffelatte.
«È da quando ti sei alzato che ti lamenti.». Isairel odiava i drammi e le persone lamentose. E Ianco era sempre il primo che iniziava a brontolare su ogni cosa, mandando fuori di testa Isairel e facendoli battibeccare.
Ianco aveva una teatralità innata ed una predisposizione per i drammi che non aveva mai visto in altre persone.
«E quindi? Ho dormito di merda e oggi ho voglia di lamentarmi, va bene?».
L'agitazione dell'amico aveva fatto ammutolire buona parte dei ragazzi nel refettorio, attirando su di loro molti sguardi: i giorni precedenti nessuno aveva mai fiatato o dato un tale spettacolo durante i pasti.
Isairel tornò a fissare la brodaglia nella ciotola e poi l'amico, con uno sguardo glaciale.
«Va bene Ian, lamentati pure, ma abbassa la voce.», sbuffò.
Giorno 6 - h 12:55
Sociologia non voleva entrargli in testa.
Faticava a concentrarsi e la sua mente vagava costantemente nel passato, nella sua vita perduta.
Riprendere le lezioni aveva fatto bene un po' a tutti perché, come aveva declamato supervisore Palmer, permetteva di rientrare in una sorta di normalità.
Normalità che faceva bene soprattutto ai ragazzi più piccoli e ai bambini.
Di nuovo il mal di testa si acuì, martellando tra le sopracciglia.
Si prese il naso tra pollice ed anulare e strizzò forte. Dolore scaccia dolore, ripeteva tra sé come un mantra, pur di trovare un minimo di sollievo.
La voce distante dell'insegnante annunciava che nel pomeriggio si sarebbero svolte delle selezioni di qualche tipo, ma Isairel non ci diede peso.
La sua attenzione era tutta per la finestra, da cui entrava una luce fredda, tipica delle ultime giornate d'inverno, quelle che preparano gli animi e la natura alla primavera.
Il cielo era terso. In una giornata così avrebbe corso oltre i campi, fino a raggiungere le colline alla fine del paese, salendo a fatica in cima, sprofondando un poco nel terreno umido. In una giornata così avrebbe goduto del sole frizzante sul viso e dell'erba umida sotto le dita.
Deglutì e un brivido gli scosse le costole quando il pensiero andò alla sorellina.
Per una strana associazione si trovò a pensare a Neva. I maschietti sotto i sei anni non erano stati ammessi alle lezioni ed erano stati spostati in un'altra ala dell'edificio, anche per la notte.
Che anche a Neva fosse toccata la stessa sorte? Chissà come se la passavano le ragazze.
Udì un suono distante e qualcosa lo colpì sulla nuca.
La faccia di Ianco invase il suo campo visivo, tanto vicina da sentire il dolciastro del suo alito mentre parlava: «Dove hai la testa oggi, Isa? È da stamattina che sei strano.».
«Non riesco a concentrarmi molto oggi.».
Ianco lo guardò perplesso, l'amico era sempre stato attento e diligente a scuola e non aveva mai avuto difficoltà. Aveva da sempre una mente brillante. Tutto il contrario del biondo, classico scansafatiche e un po' ottuso sulla maggior parte delle materie. Si grattò una tempia con l'indice, consapevole che tutta la situazione che stavano vivendo aveva destabilizzato l'amico.
Isairel era più taciturno del solito, più strano e visibilmente insofferente. Come avrebbe potuto aiutarlo?
«Forse... Forse devi solo mettere sotto i denti qualcosa. Vieni, andiamo Isa.».
Giorno 6 - h 13:25
La brodaglia continuava a sobbollire nella pentola, gorgogliando come se fosse l'acqua di una palude fetida, pronta ad inghiottire qualunque cosa.
Con sguardo disgustato osservò l'inserviente riempire il piatto con quella poltiglia dal colore non ben definito.
Prese saldamente il vassoio tra le mani e si avviò al tavolo.
Ancora non capiva come mai continuassero a propinare a tutti la dieta liquida o comunque semi-solida. Da quando erano arrivati non avevano visto un piatto di carne o un qualsiasi sformato.
Talmente preso dai propri pensieri, Isairel non notò la gamba che un tipo allungò di traverso nel corridoio, inciampando miseramente.
Il vassoio rovinò a terra, schizzando brodaglia sul pavimento e sui pantaloni di un paio di ragazzi lì vicino. Un dolore sordo al mento lo lasciò intontito per un momento.
Perfetto!
Un brusio generale si levò attorno a lui.
«Oh! Scusa. Non ti avevo visto!». La falsità nel tono di voce del tipo che l'aveva fatto cadere lo infastidì parecchio. Mentre si rialzava, udì di lontano Ianco che lo stava chiamando.
Si rimise in piedi, massaggiandosi il mento ed avvicinandosi al ragazzo che lo aveva fatto cadere. Aveva un ghigno malevolo sul volto e le risatine degli altri tre al suo tavolo gli infondevano un coraggio che, di sicuro, non avrebbe mai avuto.
Fece un profondo respiro per calmarsi.
«Che ti ho fatto?», gli chiese, aspro. A quel tavolo erano tutti più grandi di lui di qualche anno, compreso quel coglione di Frandsen, che se la rideva arricciando il naso.
«Non ti avevo proprio visto. Devi essere davvero una nullità.», fece quello, caricando il tono sull'ultima parola.
«E la cosa ti fa ridere?»
«Decisamente! Ma guardatelo! Sei davvero spassoso!».
Isairel si chinò verso di lui, afferrando velocemente il piatto pieno dal vassoio, schiacciandolo con forza sulla faccia, con una cattiveria che non gli apparteneva.
«Oh! Scusa! Non pensavo che qui ci fosse la tua faccia di merda!».
Gli altri componenti della tavolata si alzarono, indispettiti dal gesto, mentre il ragazzo cercava di togliersi dalla faccia quella orrida pappetta.
Tutti gli occhi della sala erano puntati su di loro e il brusio si era di colpo fermato.
Isairel si voltò per raccogliere il proprio vassoio, ancora a terra, quando la mano di Arthur Frandsen lo fece voltare di scatto e gli assestò un pugno sullo zigomo, che lo fece sbilanciare.
Non capì come mai, ma a quel colpo non ne seguirono altri.
Quando si voltò, con la mano sulla guancia dolorante, vide Arthur trattenuto dagli altri due del tavolo e, con la coda dell'occhio, un paio di guardie che lasciavano le loro postazioni e si avvicinavano minacciose a sedare la rissa.
Isairel sputò in direzione del biondo, colpendo Arthur in faccia e rendendolo visibilmente furibondo.
«Gates!», gli urlò, mentre gli altri lo trattenevano a stento e un paio di braccia afferravano Isairel per allontanarlo da quel posto.
«La paghi, Gates! QUESTA LA PAGHI!».
Giorno 6 - h 14:58
Alla fine, era intervenuto anche il supervisore Palmer, che aveva fatto una bella lavata di capo a tutti e tre i ragazzi coinvolti nella rissa.
Appena lo vide rientrare in dormitorio, Ianco gli corse incontro. «Ma che hai combinato, Isa?». Il moro gli fece un cenno della mano per tenerlo quieto, come se non fosse importante ciò che era successo.
«Ho fatto ciò che era giusto.», e si sedettero sul letto, l'uno accanto all'altro.
«Arthur ti ha minacciato, lo capisci questo? Non ho mai avuto grande considerazione di lui e lo sai, ma una minaccia rimane pur sempre una minaccia.».
Isairel si toccò la guancia sinistra, che ancora pulsava di un dolore sordo dopo il pugno ricevuto.
Ianco si affrettò ad afferrargli il mento e a guardare, voltandogli la faccia verso di sé, il rossastro del livido stava diventando sempre più intenso.
Isairel lo udì imprecare. «Questo ci metterà un po' per andar via. Ti erano appena guariti i graffi.», e con un dito gli sfiorò le crosticine sull'altra guancia. Rabbrividì.
«È solo. Arthur è da solo, come tutti noi qui dentro. Può abbaiare quanto vuole, farsi vedere più grosso degli altri, ma tanto rimarrà sempre un randagio spelacchiato come gli altri. E mi ha fatto saltare il pranzo. Si sarebbe meritato ben altro!».
Ianco lo guardò perplesso, perché Isairel non era mai stato uno da colpi di testa.
Apprezzava Isairel per essere sempre tranquillo e pacato, quasi fastidiosamente serafico in ogni situazione.
Eppure, in cuor suo intuiva che qualcosa s'era incrinato nell'amico.
L'Isairel che conosceva non avrebbe mai fatto una cosa del genere, un gesto tanto avventato, né si sarebbe distratto tanto durante le lezioni. Quella era una sua prerogativa.
L'animo di Isairel non si era semplicemente incrinato. In quei giorni si era spezzato in più punti e stava tentando disperatamente di ricomporsi.
Lo vide alzarsi, taciturno come sempre, e togliersi la maglia, cambiandosi per quella che doveva essere una lezione di ginnastica o una cosa del genere.
Ed era come se lo osservasse per la prima volta: non aveva mai notato quanto la sua schiena si fosse irrobustita col lavoro nei campi.
Uno strano calore gli arrivò alle guance, facendogli distogliere istintivamente lo sguardo dalle sue spalle.
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