Capitolo 15 - Quel giorno sulla spiaggia
La sabbia sotto i piedi bruciava come lava. Gli schiamazzi di adulti e bambini erano ovunque ma non riusciva a vederli, non riusciva a vedere nessun altro. Non suo padre Ruben, che era andato a nuotare; non sua madre Elyssa, che si era sdraiata su un telo per abbronzarsi. Quel giorno sulla spiaggia c'erano solo lui e suo fratello, Keten ed Enai, la pelle unta di crema solare e i capelli biondi al vento.
L'impugnatura della pistola ad acqua sembrava fatta apposta per la sua mano. Keten la stringeva così forte che le decorazioni in rilievo sul metallo gli avrebbero lasciato un segno rosso sul palmo, ma era sudato e non voleva perdere la presa, non voleva perdere, neanche se era quello lo scopo.
Lascialo divertire, aveva detto Elyssa, il sorriso dolce di un consiglio e il tono fermo di un ordine. È ancora piccolo, ci resterà male e si metterà a piangere se non riesce a vincere.
E lui? Non aveva diritto a divertirsi anche lui? Era bravo in quel gioco, riusciva a mirare con precisione anche mentre correva, ma doveva sempre fingere di essere un incapace. Il dito era rigido sul grilletto, così tante volte in cui aveva potuto premerlo e invece aveva aspettato, facendo schizzare il getto d'acqua lontano dalla figura di Enai. E suo fratello rideva, rideva perché credeva di essere più bravo anche se Keten doveva fermarsi davanti a lui perché riuscisse a colpirlo, rideva perché nessuno gli aveva detto che ad averne diritto era solo lui.
Vuole solo giocare un po' con suo fratello, aveva detto Ruben, che aveva acconsentito a comprare quelle pistole finte a patto che le usassero insieme. Non vedi com'è felice?
Lo era davvero. Enai era sempre felice con lui, lo guardava con occhi grandi di ammirazione e lo imitava qualunque cosa facesse. Gli girava attorno così spesso che a volte risultava fastidioso, Keten doveva portarselo dietro perché i suoi genitori non accettavano i suoi "no" e qualunque passatempo stuzzicasse il suo interesse era obbligato a condividerlo con lui – però era anche divertente, rideva alle sue battute e faceva tutto ciò che gli veniva detto con devozione incrollabile. Keten era il suo eroe, il suo Angelo custode.
Sei tu il maggiore. Prenditi cura di lui, d'accordo?
Correva da così tanto tempo che aveva il fiato corto. I capelli si erano appiccicati alla fronte, il sole era così luminoso che doveva stringere gli occhi per vedere. C'era caldo, così tanto caldo da sciogliere persino le ossa, ma non poteva andare a fare il bagno finché non fosse tornato suo padre. Non poteva smettere di giocare finché Enai non si fosse stancato, lui però continuava a ridere.
E così ti sei arrabbiato.
Se l'era chiesto tante volte, se gli avesse dato fastidio. Così tante volte. Ma la risata di Enai era gioiosa, e pura, ed era l'unica cosa che rendeva tollerabile quel supplizio che nessuno avrebbe potuto chiamare gioco. Non era arrabbiato. Era annoiato e stanco, e aveva sbuffato così tante volte da perdere il conto. Guardava il bagnasciuga ogni manciata di secondi perché sperava di scorgere Ruben emergere dalle onde, ma non accadeva mai. Cercava Elyssa con lo sguardo, ma lei aveva parlato solo per chiedergli di giocare un altro po' quando lui aveva detto di voler smettere.
Non riusciva più a scorgere la figura di sua madre tra gli ombrelloni. Del mare era rimasto solo il suono, l'odore di salsedine che si incastrava tra le narici. C'erano solo i suoi passi affondavano nella sabbia bollente, la figura di Enai che si stagliava nel candore della luce solare, limpido come un quadro. Rideva, con l'incisivo mancante che era caduto la settimana prima. Rideva, e ogni minuscola grinza della pelle ambrata sarebbe rimasta incisa nella memoria di Keten fino alla morte. Rideva, con il costume azzurro e quell'orribile pettinatura a scodella in cui gli avevano tagliato i capelli. Enai li detestava e aveva pianto a lungo, almeno finché Keten non aveva deciso di tagliarli allo stesso modo, e allora era tornato a ridere.
Perché odi tuo fratello a tal punto?
Non credeva di odiarlo. Sapeva essere petulante, capriccioso, invadente, ma era un concentrato di vitalità e ottimismo contagioso, buono come Keten non sarebbe mai stato, e se gli avesse detto che il fuoco non bruciava ci si sarebbe gettato senza esitazione perché si fidava di suo fratello maggiore più di chiunque altro al mondo.
Mai fidarsi fino in fondo.
Non credeva di odiarlo, anzi, avrebbe persino detto di volergli bene. Era suo fratello e lo amava, anche se c'erano giorni in cui non lo sopportava, giorni in cui litigavano e si facevano i dispetti, giorni in cui si chiudeva a chiave in camera pur di non averci a che fare. Lo amava perché c'erano anche i giorni in cui ridevano per ore come due idioti, quelli in cui Enai gli lasciava il piatto con l'uovo più grande, quelli in cui combinavano insieme qualche disastro e si davano manforte per non farsi beccare dai genitori.
Lo amava – no, credeva di amarlo, ma quel giorno non era arrabbiato. L'aveva guardato bene, la sabbia umida che gli sporcava le caviglie, i nei che aveva sulla schiena quando gli aveva dato le spalle. Non era arrabbiato, voleva solo un po' di soddisfazione. Era bravo a quel gioco, gli era riuscito bene sin da subito.
Il mio fratellone è il migliore di tutti!
Lo era.
E voleva vincere, almeno una volta. Voleva colpirlo. Voleva sparare.
Sollevò la pistola, prese la mira e sparò.
       
               
Kolt si svegliò annaspando, il suono dello sparo che rimbombava ancora tra le orecchie. L'aria raschiò contro la gola, il cuore batteva così forte che lo sentiva pulsare sulla pelle, il sudore gli bagnava il collo, il viso, il petto. Non era più sulla spiaggia, ma sentiva le urla dei bagnanti graffiargli le orecchie, e quelle di sua madre, e lo sguardo sconvolto di suo padre. Il sangue, non aveva mai visto tanto sangue in vita sua prima di allora, Enai aveva smesso di ridere e Kolt di respirare.
Il resto arrivò tutto insieme, travolgendolo in un istante. La corsa in ospedale, l'attesa, il medico che li informava che Enai era vivo, sì, ma non avrebbe camminato mai più. Il pianto dei suoi genitori, le accuse, quello psicologo di cui era riuscito a dimenticare il nome e il viso, ma non le parole che gli aveva rivolto.
Se non eri arrabbiato, il Sihir ha seguito la tua volontà. Forse la tua mente adesso tenta di negarlo per proteggerti, ma questi sono i fatti. Volevi sparare a Enai, volevi fargli del male, forse persino ucciderlo. Perché odi tuo fratello a tal punto?
Non lo sapeva. Non credeva di odiarlo, non l'aveva mai pensato, ma se quelli erano i fatti allora aveva fallito nell'amarlo. Aveva fallito e l'aveva spezzato, come aveva spezzato il matrimonio dei suoi genitori, il loro affetto, ciò che restava della sua famiglia.
Dove abbiamo sbagliato con te?
Strinse gli occhi, trattenendo un lamento. Quelle voci non erano reali, appartenevano solo ai suoi ricordi e poteva scacciarle come aveva sempre fatto. Non c'erano i suoi genitori, non c'era lo psicologo, non c'era Enai. Non c'era neppure Keten, e lui non era sulla spiaggia, era...
Era caldo. E profumava del suo shampoo, ma in modo diverso. Riaprì gli occhi e la tiepida luce del mattino lo accolse nella sua stanza, ma gli ci volle qualche istante per connettersi alla realtà. Era nel suo letto, Cat dormiva sul divano in soggiorno e Vesper accanto a lui, con il braccio legato al busto e tutti i cuscini extra che erano riusciti a recuperare. Si era messo supino per non pesare sulla spalla, ma nella notte doveva essersi girato su un fianco e Kolt lo teneva stretto tra le braccia. Sussultò, ma era troppo agitato per pensare anche a quello. Il cuore sembrava sul punto di esplodere, gli tremavano le mani, il respiro era ancora irregolare – e Vesper bruciava, ma in modo bello. Era morbido, e così piccolo che poteva avvolgerlo, era silenzio e la sua mente ne aveva bisogno come il corpo bramava l'aria.
Si strinse di più a lui, attento a non premere sulla spalla ferita, affondò il viso tra i ricci scuri e respirò a fondo, piano, finché il mare non si ritirò dalla sua mente, cancellando i resti di quel sogno dalla sabbia. Non era reale, non più. Non era sulla spiaggia, non c'era nessuno se non Vesper, e il suono del respiro lento che guidava il ritmo per placare il suo. Si beò di quella sensazione finché il cuore non smise di agitarsi e le orecchie di fischiare, e forse era ancora intontito dal sonno ma non gli sembrava sbagliato né tantomeno vergognoso. Non gli sarebbe dispiaciuto addormentarsi così, restare avvinghiato a lui tutta la mattina, lontano dal mare.
Poi Vesper si mosse. Il braccio sano scivolò via da sotto il cuscino, cercò la sua mano sotto il lenzuolo. Gli sfiorò il palmo in un tocco talmente lieve che Kolt pensò di esserselo immaginato, poi intrecciò le dita alle sue.
Kolt prese fiato tutto in una volta e ritirò il braccio, prendendo le distanze. Sveglio. Era sveglio. Per le stelle, che diamine gli era preso?
«Scusa» sussurrò Vesper. Da quanto tempo era cosciente? «Puoi restare, se vuoi. Non—»
«Mi stavo alzando.»
Idiota. Fottuto, maledetto idiota. Voleva tornare ad abbracciarlo e invece gettò via le coperte e si tirò su, trascinando i passi fino al bagno. Non aveva neanche idea di che ore fossero – il sole era ancora basso, perciò era di sicuro troppo presto – ma si lavò comunque il viso e puntò dritto alla cucina, perché era un idiota.
Cat dormiva ancora, talmente infagottata che il viso si scorgeva a malapena tra coperte e cuscino. La lasciò stare e riempì la caffettiera, gettando una piccola Pietra di Sihir nel fornello per accendere il fuoco. Quando nell'aria cominciò a diffondersi l'odore di caffè, Vesper lo raggiunse. Aveva l'aria assonnata e i capelli spettinati, il pigiama che Kolt gli aveva prestato gli calzava grande e sembrava sul punto di scivolare via.
«Hey. Hai dormito bene?»
«Come un Angelo» disse lui, costruendo in qualche modo un sorriso mentre le urla echeggiavano nella sua mente, e lo sparo, quel maledetto sparo. Come poteva un suono talmente breve durare per sempre? «La spalla che dice?»
«Va meglio del previsto. Non pensavo che sarei riuscito a dormire più di due ore consecutive, e invece...»
«L'ho detto che quel Rimedio ti rifaceva nuovo. Fottuti jiyani, si trovasse un modo per spacciare quella roba senza farsi ammazzare dall'Ordine ci sarebbe davvero da diventare ricchi!»
E per fortuna aveva accettato l'offerta quando Chloe aveva insistito perché portasse con sé un antidolorifico. Era una bottiglietta minuscola, solo pochi sorsi, ma sarebbero bastati per un paio di giorni.
Vesper accennò una risatina, ma non disse altro. Calò un silenzio denso di un disagio che gli artigliava il petto, secondi che non erano mai stati così lenti. Kolt spense il fornello e versò il caffè nelle tazzine, aggiungendo un po' di latte in quella di Vesper, poi cominciò a sorseggiare il suo senza aspettare che si freddasse.
«Parli nel sonno, sai?» sussurrò lui d'un tratto. «Chiedevi scusa a qualcuno. Sembravi agitato.»
Kolt chiuse gli occhi e li riaprì, aveva perso la messa a fuoco. «Io che chiedo scusa? Poteva succedere solo in un sogno – anzi, di sicuro un incubo!»
«Non ricordi cos'hai sognato?»
«Per nulla. Sarà stata qualche stronzata senza senso, chi se ne frega.»
«Kay.» Il tono si fece più cupo, morbido eppure solenne. «Chi è Enai?»
«Qualcuno che si fa i cazzi suoi, a differenza tua. Ti sei svegliato con la voglia di rompermi i coglioni o posso bere il caffè in pace?»
Lui strabuzzò gli occhi. Schiuse le labbra, ma dopo qualche istante le chiuse senza dire nulla. Abbassò lo sguardo e fu come ricevere una pugnalata allo stomaco. Kolt lo guardò svuotare la tazzina in un lungo sorso mentre il coltello spingeva e torceva nelle sue viscere, non aveva bisogno di chiederglielo per capire che gli aveva fatto più male di qualunque osso rotto. Vesper posò la tazzina sul bancone, lo salutò con un cenno e si voltò.
«Vi, mi dispiace» sputò fuori Kolt, afferrandogli il braccio buono. «Scusa, sono un coglione.»
«No, è colpa mia. È chiaro che non vuoi parlarne, non avrei dovuto chiederlo. Ma se... se cambiassi idea, puoi dirmelo. Puoi dirmi tutto. Sono bravo a mantenere i segreti quanto lo sono a scoprirli.» Accennò un sorriso agrodolce, gli occhi ancora bassi. «Va bene anche se vuoi solo sfogarti. I pensieri non dovrebbero mai ristagnare nella mente troppo a lungo, a volte vanno solo buttati fuori.»
Smettila di frignare, lo rimproverò Gari dai suoi ricordi. I veri uomini non ne hanno bisogno. Tirati su, per tutti gli Angeli, a nessuno frega un cazzo se sei triste.
Deglutì, la bocca secca. Riempì i polmoni di un respiro lento, ma persino dopo non trovò nulla da dire. L'idea di raccontare cos'era successo gli attorcigliava la lingua, il cuore batteva dritto in gola. Forse sarebbe stato meglio che Vesper l'avesse scoperto da sé, come aveva fatto Chloe; non era un Tessitore, ma se si fosse messo d'impegno sarebbe riuscito a risalire al suo vero nome, al suo passato – solo che non l'avrebbe mai fatto, perché lo rispettava. O, se l'avesse fatto, avrebbe portato il segreto con sé nella camera crematoria. E così avrebbe fatto Kolt, anche se moriva dalla voglia di dirglielo, di buttarlo fuori. A che sarebbe servito? Non poteva cambiare le cose. Non aveva neppure qualcuno da incolpare se non se stesso. Parlarne sarebbe stato inutile, l'avrebbe solo reso patetico.
Lasciò la presa. Il silenzio stava diventando teso un'altra volta, così cominciò a parlare: «Non ti ho ancora fatto i complimenti per ieri, ci hai davvero salvato il culo. Che bluff assurdo hai tirato fuori! Un po' overdramatic verso la fine, ma l'hai venduto così bene che quasi ci credevo anch'io.»
Vesper sbattè le ciglia. «Pensi fosse un bluff?»
«Cos'altro dovrebbe essere? Costruito alla grande, ma era una cazzata. Voglio dire, non ti spareresti davvero in testa per me.»
Lui lo guardò, il busto dritto e gli occhi che affondavano nell'anima. «Non riesco a immaginare una singola cosa che non farei per te.»
Kolt inghiottì a vuoto, il respiro immobile nel petto. Avrebbe dovuto rispondere, ma la sua mente si era svuotata. Soffiò una risata nervosa mentre qualcosa – lo sapeva, lo sapeva cosa – si agitava nel suo stomaco, poi distolse lo sguardo e tornò a bere caffè.
Idiota. Fottuto, maledetto idiota.
«Non sono manco le sette» bofonchiò Cat, stropicciandosi gli occhi in uno sbadiglio. «Che cavolo ci fate già svegli?»
«È casa mia, faccio quello che mi pare. E già che sei sveglia anche tu, alza il culo: mangiamo qualcosa e si va.»
Si vestirono in fretta e consumarono una colazione a malapena decente, con pane imburrato e prosciutto. In casa non c'erano né frutta né uova, a malapena del miele per addolcire il latte di Cat, che era un miracolo che fosse ancora buono. Vesper si chiuse nel suo taccuino, scribacchiando ragionamenti che non considerava abbastanza solidi da esprimere a voce, e Kolt si guardò bene dal riaprire l'argomento. Si guardò bene dal dire qualunque cosa che non fosse un commento necessario o una battuta sarcastica, prendendo in giro Cat che era ancora intontita dal sonno, finché qualcuno bussò all'ingresso.
«Aspetti qualcuno?» chiese Vesper a bassa voce.
«L'unica persona che verrebbe a quest'ora non ha bisogno della porta e non si è mai degnata di bussare in vita sua.»
Kolt mimò a Vesper e Cat di fare silenzio e avanzò con cautela, la mano sinistra già pronta a servirsi del Sihir. Aveva chiuso sia a chiave che con il chiavistello, gli infissi erano rinforzati in metallo e non sarebbe stato facile buttare giù la porta, ma l'aria si fece subito tesa.
Bussarono di nuovo. «Ti conviene aprire, Bangarada. Qui finisce male.»
Sfilò la giacca e la accostò allo spioncino per coprirlo. Nessuno sparo. Solo allora si rivestì e avvicinò l'occhio al vetro, scrutando l'esterno di persona. Tre uomini e una donna sostavano sul pianerottolo, tutti con lo stesso completo nero lucido e le pistole in mano. Kolt non riconobbe i volti di nessuno di loro, ma la stella a quattro punte che avevano sul fermacravatta era inconfondibile.
Aureli. Merda.. Vaffanculo a Fosfor, al Signore della Luce e alla schiera angelica tutta..
«Signorino Vesper» urlarono, sollevando le armi verso la porta. «Se è lì dentro, si allontani dall'ingresso. Tre... Due... Uno...»
Kolt scattò di lato un attimo prima che aprissero il fuoco. Masticò un'imprecazione e mirò alla porta, ma la presa salda di una mano si strinse attorno al suo polso.
«Wait! Non sparare, sono gli uomini di mio padre!»
«Non è che loro siano intenzionati a offrirmi tè e biscotti.»
I quattro scaricarono altri colpi contro la porta. Cat cacciò un grido e subito si tappò la bocca con le mani, Vesper invece corse verso la finestra della cucina e cominciò ad armeggiare con leve e ingranaggi.
«Che stai facendo?»
«Disattivo l'allarme, quantomeno non avranno certezza che siamo fuggiti dalla finestra.»
«È il settimo piano, Vi, e quelli ci stanno addosso. Io potrei scappare dalla finestra, ma voi due—»
«Se Fosfor ha cantato sono fottuto, mi rifiuto di tornare casa solo per essere rinchiuso in camera.» Spalancò le ante, il meccanismo ormai inerte non accennò a suonare. Vesper inforcò gli occhiali da sole, infilò nella tasca interna della giacca la boccetta di antidolorifico e poi uscì in balcone. «I said what I said, sono pronto a scommettere tutto. Andiamo, Kay. Tu sai come tirarci fuori da qui, non è vero?»
Sbattè le palpebre. Dietro di lui i sottoposti degli Aureli avevano cominciato a prendere a spallate la porta, facendola tremare. Vesper aveva teso la mano verso di lui, lo sguardo carico di speranza, Cat era ferma vicino alla finestra e lo fissava in attesa di indicazioni. Sette piani, poco spazio di manovra, una manciata di secondi per far perdere le loro tracce. Non poteva lasciare Cat a se stessa e Vesper non poteva reggere gli urti, senza contare che aveva una scapola rotta. Una sfida persa in partenza, tutto contro di loro.
Kolt soffiò una risata, il petto che bruciava di adrenalina. «Ancora non l'hai capito, Blackstar? Io so fare qualsiasi cosa.»
Allacciò la fondina al fianco e raggiunse Vesper in balcone, facendo cenno a Cat di seguirlo. Lanciò una rapida occhiata alle palazzine irregolari e schiacciate del suo quartiere, ammassate tra loro come resti gettati via a casaccio. Una striscia sottile di strada lastricata si apriva sotto di loro, oltre le lunghe file di balconi sfalsati e malmessi. Ad avere più tempo sarebbe bastato calarsi giù ringhiera dopo ringhiera, ma gli Aureli ci avrebbero di sicuro fatto il giro prima che Vesper e Cat riuscissero a toccare il suolo. Lato positivo: finché il signorino sarebbe stato con loro, non avrebbero sparato.
«Powder, dacci dentro con quelle mandorle, ci serve Micron» ordinò, impugnando la rivoltella nera. «Dobbiamo rifare la cosa del riformatorio, solo... da un po' più alto.»
Cat sussultò. «Ma Brycen ha detto che lo Sblocco è una cosa a parte, non so se riesco a farlo di nuovo!»
«Riesci a muovere e compattare la polvere, è abbastanza. Quando te lo dico crea degli ammassi davanti a noi, mi basta avere la spinta.»
«E se non funzionasse?» mugolò, gli occhi grandi e le mani strette attorno al sacchetto di mandorle.
«Funzionerà, fidati di me. Ne sono certo.»
«Come fai a dirlo?»
«Beh, perché altrimenti siamo morti tutti.»
Lei strabuzzò gli occhi, ma aprì alla svelta il sacchetto e si ficcò un'intera manciata di mandorle in bocca. Kolt le fece cenno di avvicinarsi e la aiutò ad arrampicarsi sulla sua schiena, le gambe esili strette attorno alla vita e le braccia che gli circondavano il collo. Quando fu certo che la presa di Cat fosse salda, cinse Vesper per la vita e lo tirò a sé. Lui si aggrappò al suo collo con il braccio buono, incastrandolo tra lui e Cat, e Kolt gli sollevò le gambe con la mano libera per sorreggerlo.
«Tieniti forte, stellina.» Kolt gli fece l'occhiolino e caricò la pistola, lo sguardo fisso sulla ringhiera del palazzo di fronte mentre il Sihir scorreva tra le sue dita. «Pronti?»
«No» risposero in coro.
Kolt scoppiò a ridere. «Andiamo!»
Sparò con il boato della porta che veniva sfondata alle sue spalle. Il Sihir si concretizzò in filamenti di metallo e si aprì un rampino lucido all'estremità, agganciandosi alla ringhiera del balcone di fronte. Kolt serrò la presa attorno alla rivoltella, caricò il salto con tutta la forza concessa a un Dotai e si lanciò oltre il balcone. Vesper nascose il viso contro il suo, Cat soffocò un urlo che seguì la caduta finché la corda non raggiunse l'estensione massima. Oscillarono nel vuoto, il braccio sinistro tirava, Cat lo stringeva così forte da spezzargli il respiro e Kolt pregò qualunque divinità di cui si supponesse l'esistenza che Vesper non scivolasse giù, ma il cuore pompava fulmini nelle sue vene e l'energia mistica si mescolava alla tensione in un cocktail troppo eccitante per avere paura. Il mondo era nelle sue mani e persino la gravità si sarebbe inchinata a lui.
«Adesso, Powder!»
Cat emise un lamento a bocca chiusa, un ringhio sommesso mentre frantumava le mandorle tra i denti. Artigliò la sua camicia tra le dita, poi la polvere cominciò ad ammassarsi davanti a loro e da una manciata di granelli sospesi divenne un conglomerato compatto. Kolt allentò la presa sul grilletto e la corda metallica si staccò, facendo svanire il rampino in un soffio di Sihir. Cadde dritto verso la polvere, piegò le ginocchia e vi atterrò sopra. Vesper si strinse di più a lui mentre affondava con i piedi fino alle caviglie; era davvero come camminare nella sabbia, e strinse i denti per non pensare troppo a quella sensazione.
Il vento sferzava contro il viso, costringendolo a stringere gli occhi, ma quando Kolt si fermò lo fece anche il mondo. Sentì la polvere che cominciava a sgretolarsi sotto di lui, un istante e avrebbe ricominciato a cadere, ma era tutto ciò che gli serviva. Puntò una nuova ringhiera, il Sihir che si esplodeva dentro di lui attraverso lo sguardo, poi premette il grilletto. Caddero per quello che doveva essere più o meno un piano, poi la corda metallica di un secondo rampino frenò quel moto e li tirò su, proiettandoli più avanti. La spalla, cazzo, che male. Temette per un attimo che il colpo di frusta gli avrebbe staccato via il braccio, i muscoli tendevano in fitte dolorose, ma era ancora tutto intero – certo che lo era. Era un fottuto Dotai, poteva sopravvivere a molto peggio.
«Continua così, Powder!» gridò a Cat, il cuore che ruggiva nel petto. «One, two, three... Ora!»
Cat masticò le mandorle e la polvere si accumulò in un'altra nube sospesa. Era più piccola della precedente e più cedevole, Kolt riuscì ad atterrare con un piede solo e il sostegno collassò subito sotto di lui. Un istante, gli serviva solo quell'istante, bloccare la città giusto il tempo per metterla a fuoco. Finché riusciva a vedere, poteva persino volare.
Sparò un rampino dietro l'altro e oscillò tra i palazzi come un pendolo impazzito, sfruttando ogni attimo di fermo che Micron gli concedeva per darsi la spinta e ciondolare nella direzione giusta. Più scendevano e più le nubi di polvere erano rarefatte, si disgregavano all'impatto con i suoi piedi. I muscoli gridavano per lo sforzo, l'energia mistica incendiava le vene, le dita tremanti erano sul punto di cedere – non aveva importanza. Finché riusciva ad assorbire Sihir, niente aveva importanza.
Quando dondolò vicino al terreno gli sembrò di tornare a respirare, la strada finalmente vicina – cazzo, troppo vicina. Sussultò, preparandosi all'impatto. Strinse le gambe di Vesper, che scivolava via via sempre più in basso, e piegò le ginocchia per ammortizzare quanto possibile l'atterraggio. Era già pronto allo schianto quando dalla pietra si levò una sottile polvere grigia – no, la pietra stessa si era polverizzata ed era pronta ad accoglierlo. Chiuse gli occhi, lasciò la presa sul Sihir e si gettò in avanti, lasciando che la massa polverosa lo inghiottisse. Il particolato ruvido gli graffiò appena la pelle, ma l'insieme era soffice e ammortizzò la caduta finché non si fermò del tutto. Quando riaprì gli occhi – il respiro in affanno, il cuore che pompava in gola, i muscoli doloranti – era afflosciato su una collinetta di pulviscolo che aveva scavato una conca profonda dietro di loro.
Scoppiò a ridere e si abbandonò a quel morbido sostegno, riprendendo fiato. Non erano solo scesi, si erano allontanati dal suo appartamento per decine di metri e le figure degli Aureli erano minuscole, così ridicole affacciate al balcone. Cazzo, quanto avrebbe voluto vedere la loro espressione!
«Tutti interi?»
«Non che lo fossi prima, ma sto bene» commentò Vesper. «Solo un po' disorientato.»
Cat si agitò dietro la sua schiena, lo spinse via a calci e pugni per liberarsi. La sua espressione si tinse di meraviglia quando si guardò attorno, affondò le mani nella polvere e la gettò in aria. «Ce l'ho fatta... Ce l'ho fatta!»
«Te l'avevo detto di fidarti! Lo vedi che quando mi ascolti non sei un completo disastro?» Kolt sghignazzò. Si mise in piedi e poi tese un braccio a Vesper per aiutarlo a fare lo stesso, mentre Cat sguazzava festante nel mucchio polveroso. «Ah, per la cronaca, non saremmo morti. Avevo un piano di riserva. Ma, hey, ha funzionato! Niente rende concentrati come essere in pericolo di vita, vero? Un infallibile grande classico!»
Cat si fermò, scura in viso. «Brutto deficiente, cretino, pazzo rincitrullito—!»
Gli riempì il petto di piccoli pugni mentre continuava a insultarlo, e Kolt non riuscì a trattenersi dal ridere.
«Bentornato, Kay» disse Vesper, sorridendo. «E... grazie.»
Kolt gli rivolse uno sguardo complice. «Non c'è di che.»
       
               
«Quindi chi è questa Realgar?» domandò Cat, il naso all'insù e gli occhi curiosi che si guardavano attorno.
Seminare gli Aureli era stato facile, ma avevano girovagato tra i vicoli per essere certi di far perdere le loro tracce prima di raggiungere l'arena dei Rascals. La costruzione circolare svettava nel mezzo della zona industriale, distinguendosi per i colori vividi con cui erano state dipinte le lamiere di rivestimento delle pareti – giallo, rosso e viola andavano per la maggiore. Realgar l'avrebbe voluta a cielo aperto, come un circo verlatiano, ma le piogge a Lenwish erano troppo frequenti perché potesse permetterlo. Aveva raggiunto un compromesso grazie a un meccanismo di apertura del tetto, che tirava indietro le lamine di metallo scoprendo la porzione centrale, là dove era posizionato il ring. Era aperto in quel momento, anche se le nuvole grigie dai sottotoni viola coprivano il sole, e faceva somigliare l'arena a una grossa lattina scoperchiata.
«È il capo della gang che gestisce l'arena da combattimento. Ha il predominio sul settore, nessuno in città offre incontri spettacolari come quelli dei Rascals.» spiegò Vesper. «Ci aiuterà, non preoccuparti. Possiamo fidarci. Lei e Kolt si amano, anche se lui preferirebbe spararsi su un piede pur di ammetterlo.»
«Ti ho sentito.»
Lui allungò un sorriso furbo. «Però non mi hai corretto.»
«È una cazzata così grossa che non ce n'è bisogno» protestò, ma Vesper sogghignava ancora e Cat li guardava con aria confusa, incerta su quale fosse la verità.
Realgar gli piaceva, e non solo sotto le lenzuola. Era tra le poche persone di cui si fidava quasi ciecamente – non del tutto, mai del tutto – e l'idea di rivederla gli scaldava il petto, faceva correre un'energia vivace tra i muscoli – ma amore era una parola grossa, una che Kolt aveva smesso di usare ancor prima che Gari gli insegnasse a guardarsi bene da certe relazioni.
Non faceva per lui. Non ne aveva bisogno. Aveva il sesso, e la complicità, e il divertimento, e–
Signore della Luce, era stupenda.
All'interno dell'arena, interminabili file di spalti vuoti circondavano il ring centrale e lei era lì, meravigliosa come sempre, cuore pulsante dello spettacolo persino senza riflettori. I capelli rossi erano acconciati in minuscole treccine e poi raccolti in una treccia più grande, com'era usanza nella sua terra d'origine, ma il top aderente sul busto e i pantaloni larghi pieni di tasche erano squisitamente roumberghiani.
Kolt sentì Vesper e Cat parlottare alle sue spalle ma li ignorò, ammirando Realgar allenarsi mentre si avvicinava al ring. La pelle scura era imperlata di sudore, le labbra piene curvate un ampio sorriso, la muscolatura massiccia resa ancora più evidente dallo sforzo. Combatteva senza trattenersi, lanciandosi qua e là con la spinta delle corde elastiche, i passi che pestavano la pedana in tuoni cupi. Lei e il suo avversario si scambiarono una serie di colpi, si gettarono a terra l'un l'altro, finché Realgar non lo atterrò con una spinta ruggente.
C'erano altri Rascals lì attorno, ma Kolt aveva occhi solo per lei. Sorrise in un riflesso automatico quando lei si affacciò nella sua direzione, facendo penzolare le braccia oltre le corde.
«Golden boy!» lo salutò, entusiasta. «In anticipo, huh? Qualunque geniale cazzata ti sia venuta in mente, count me in.»
       
               
Come poteva aprirsi un capitolo con questo titolo, se non con i traumi? :')
Contrariamente al prologo, in cui ho riscritto la breve scena della vecchia oneshot per darle corpo, qua ho fatto al contrario: ho preferito lavorare più di introspezione e non-detto, sacrificando le informazioni superflue per andare più nel cuore della vicenda, con questo mix un po' confuso ma con tanti dettagli per chi sa leggere tra le righe. Lo trovo più d'impatto, spero sia lo stesso per voi ♥
Proseguiamo nel magico mondo del circo, con Kolt nel presente che si dimostra ancora una volta un pagliaccio e risponde alla dichiarazione di Vesper con un paio di spunte blu. Nemmeno il tempo di goderceli tutti abbracciati che ovviamente rovina tutto ç_ç E quando si tocca il tasto sbagliato, come già sappiamo, scatta: mi piace però che "io che mi scuso? solo in un sogno" e poi si scusa due righe dopo, lol, che grande esempio di coerenza, signori!
Poiché questa storia è una serie di sfortunati eventi, Fosfor ha detto la verità su Vesper (o gli è sfuggita, o è stato scoperto e lei non c'entra, questo non lo sappiamo) e anche gli Aureli si uniscono al team "rincorriamo il trio delle meraviglie", ma per fortuna il vostro amichevole Kolt di quartiere ha sempre un asso nella manica!
E finalmente arriviamo da Realgar, che non lo fa neanche parlare ed è già pronta a unirsi alla banda. I prossimi capitoli saranno dedicati alla oneshot "Facciamo una scommessa?" con i loro flashback, tempo di rileggere e sistemare e li pubblico, ma dopo avremo un POV nel presente tutto suo :3
Bạn đang đọc truyện trên: TruyenTop.Vip