Capitolo 30 - Cosa fai?
«Stelle, è orribile. Non riesco a guardare.» Francesca si coprì la bocca con la mano, distogliendo lo sguardo in un singhiozzo.
Aveva affidato alla sua domestica il compito di mettere una museruola a Cat, mentre lei continuava a scusarsi e a maledire la paranoia di Gari. I tacchi picchiavano il pavimento al ritmo del suo nervosismo, e il fatto che portasse le dita alla bocca per rosicchiare le unghie – le allontanava subito quando se ne rendeva conto, controllando che lo smalto fosse intatto – agitò lo stomaco di Cat più delle occhiate apprensive e i commenti zuccherosi.
La domestica, una donna robusta sulla quarantina in divisa grigia, non le aveva rivolto la parola. Le aveva ficcato le dita in bocca per costringerla ad aprirla, poi aveva incastrato una cintura rigida tra i denti. Cat aveva trattenuto a stento la voglia di tirarle una testata, ma voleva mostrarsi docile; regola numero uno, impara a giocare con le apparenze. Si sforzò di tenere lontana la lingua dalla cintura, ma l'odore di cuoio conciato le grattava le narici e al continuo deglutire si alternavano i conati. La donna assicurò la chiusura con uno dei lucchetti della scrivania e poi le legò i polsi dietro la schiena, attorcigliando la corda in un nodo così stretto da farla sussultare.
«Per gli Angeli, Lauren! Hai dimenticato cos'è la delicatezza?» sbottò Francesca, rifilandole uno sguardo che avrebbe potuto incenerirla. «Vattene. Dì a Gari che qui abbiamo finito, che mi raggiunga nel salone.»
La domestica occhieggiò perplessa alle caviglie di Cat. «Ma il Signor Kafalik ha detto—»
«I don't care, così lo capisci? Non può usare il Naru, ha le mani legate, Gari se lo farà andare bene. Non ho intenzione di torturare mia figlia più di così, è già orribile costringerla a questo scempio.» La voce si incrinò, ma Francesca fu rapida a riprendere il controllo, la mano premuta contro il petto. «E adesso via. Sciò sciò. Una porta posso chiuderla anche da sola.»
La donna uscì senza lamentele. Quando furono sole, Francesca si accasciò seduta sul letto, massaggiando la fronte mentre svuotava il petto dell'ennesimo sospiro.
«Oh, povera piccola... Povero tesoro...» Allungò le mani verso Cat, le fece cenno di avvicinarsi finché non fu in grado di accarezzarle le braccia. «Mi dispiace tanto. Sopporta solo qualche altro minuto, d'accordo? Ti toglierò questi affari non appena avrò finito con Gari, farò più in fretta che posso. Ti prometto che mi farò perdonare.»
Una zaffata di profumo agrumato le pizzicò il naso quando Francesca la tirò a sé in un abbraccio, passando le dita tra i lunghi capelli sciolti. La pelle non la smetteva di formicolare, ma il tepore della donna era piacevole, morbido, e sciolse un poco la tensione dei muscoli così tesi da fare male. Sembrava così... vero. Non era certa che lo fosse, ma non era certa neppure che fosse falso; dopotutto, era Quentin che le aveva di sicuro mentito almeno una volta.
Gli occhi cominciarono a bruciare, gonfi di lacrime. Francesca liberò un versetto intenerito e le asciugò con cura con le dita, le baciò la fronte prima di andare via e chiudere la porta a chiave. Che avrebbe fatto se avesse avuto ragione lei? Se il dolore che le squarciava il petto era per un impostore che non l'aveva avuta a cuore neanche un po'? Sembrava impossibile. Da quel poco che aveva capito, Gari aveva fatto lo stesso con Kolt, ma lui – a detta di Vesper – era sempre stato uno stronzo; Quentin l'aveva cresciuta con amore, l'aveva istruita, coccolata, protetta. Lui e Darby erano stati i migliori genitori che avesse potuto desiderare e Cat si rifiutava di credere che fosse stata una bugia. Se lo era, allora l'avrebbe tenuta stretta fino alla morte.
Morse la cintura con forza, sopportando la nausea per masticarla. I denti affondarono a malapena nel cuoio, vibrarono per lo sforzo fino a far dolere la mandibola, ma il Sihir non si mosse. Cat sbuffò, sputacchiando in giro. Aveva vissuto tredici anni senza Micron e ne avrebbe fatto a meno anche quella volta. Non era nella stanza schifosamente vuota del riformatorio: l'avevano rinchiusa in una camera da letto ben arredata e piena di cianfrusaglie, avrebbe trovato il modo di scappare. Forse Quentin non era davvero suo padre, ma lei era senza dubbio sua figlia.
Si infilò dietro lo specchio a figura intera e lo spinse con una spallata decisa. La base metallica barcollò, gemette sui cardini e si schiantò a terra in un tonfo, seguito dal fragore del vetro che esplodeva in una miriade di schegge. Cat restò immobile per qualche istante, il fiato sospeso e il cuore che martellava nel petto; poi, quando fu certa che il fracasso non aveva allertato nessuno, si accucciò a terra. Spinse avanti una gamba, ruotò il busto e si contorse per trascinare una scheggia abbastanza grande con la punta del piede. Quando fu abbastanza vicino, si voltò e allungò le mani legate per afferrarla. Il vetro le incise le dita in un taglio rovente, ma lei strinse la scheggia tra le mani dal lato piatto e strisciò quello tagliente contro la corda. Era robusta, il nodo ben stretto, e non aveva idea di dove stesse tagliando; al suono dello sfregamento non seguì alcuno strappo. Stava cedendo almeno un po'? Le sembrava di essere affondata un po' nel groviglio, ma quando provò a liberarsi la presa della corda era ancora salda. Strofinò e strofinò, il sudore che scivolava sulla fronte, il petto schiacciato. Le dita bruciavano e dolevano, il sangue colò lungo la pelle finché lo specchio non scivolò via dalla sua presa.
Sputò fuori un insieme di vocali confuse che avrebbe dovuto essere una bestemmia, poi rigirò la mano sana per tastare il nodo. Era ancora integro, ma c'era un solco su una corda, profondo abbastanza che un filo si era già spezzato. Si guardò attorno, maledisse lo specchio tra sé e sé e poi si avvicinò alla base rovesciata. I due piedi metallici rivolti verso il soffitto avevano bordi smussati ma sottili, e Cat si trascinò per poggiarvi sopra la corda lacerata. Strinse i pugni e cominciò a sfregare, fin quando non sentì la corda allentarsi in uno scatto che fece cadere il nodo al suolo. Libera!
Schizzò in piedi, guardandosi le mani che non era mai stata più felice di vedere. Erano imbrattate di sangue, ma i tagli sulle dita non erano profondi. O forse sì, pulsavano e dolevano – ci avrebbe pensato dopo. Se le asciugò sul lenzuolo, poi aprì i cassetti della scrivania. Ignorò i trucchi e la biancheria intima, rovistando tra gli accessori per capelli finché non recuperò due lunghe forcine metalliche. Fu tentata di provare a scassinare il lucchetto che aveva sulla nuca, ma sarebbe stata una perdita di tempo: era minuscolo, non riusciva a vederlo e la posizione era scomoda. Si concentrò invece sulla porta, chinandosi davanti alla serratura. Infilò la prima forcina dopo averla allargata, poi la seconda con un'estremità piegata da usare come leva. Dovette armeggiare un po', ma i perni si sollevarono uno dopo l'altro fino a far ruotare il cilindro. Il familiare clank del catenaccio suonò come una fanfara di vittoria, e la porta si aprì docile quando abbassò la maniglia.
Cat sbirciò fuori con cautela, accertandosi che la via fosse libera prima di muoversi. Ficcò le forcine in tasca e poi sgusciò in corridoio, muovendosi cauta verso le scale. Stelle, quel posto era enorme. Che se ne facevano i ricchi di tutto quello spazio? C'era persino un angolo arredato a mo' di salotto in mezzo al corridoio, con divanetti posti accanto alle finestre e un'infinità di piante, che nelle case di Roumberg erano quasi più rare dei gioielli. Sgattaiolò verso l'ingresso senza emettere fiato, sfuggendo allo sguardo dei pochi domestici che incrociò lungo il cammino. Erano così presi dai loro affari che le bastò accucciarsi e aspettare il momento giusto per passare oltre le loro spalle... Non sarebbe stato altrettanto facile con le guardie riunite nell'androne, però. Cat le osservò acquattata dietro una grossa pianta dalle lunghe foglie seghettate, il vaso così largo e spesso che non sarebbe riuscita a spostarlo neanche con la sua nuova forza da Dotai. Erano in sei e tra loro c'era anche l'uomo che l'aveva catturata, a braccia incrociate proprio davanti alla porta.
L'ingresso principale è bloccato, mormorò la voce di Quentin nella sua testa, cosa fai?
Maledire il Signore della Luce e tutti gli Angeli non era una risposta accettabile, quindi si fece piano piano indietro e cominciò a studiare il corridoio mentre lo percorreva. L'uscita secondaria? Forse ce n'era una nelle cucine, o dall'altro lato della casa. Sarebbe stato ancora meglio se fosse riuscita a trovare un passaggio segreto, come quello in cui l'aveva trascinata Märghe – sempre che ce ne fosse stato uno. Cos'aveva detto Vesper? Fessure nelle rocce, giunture imprecise, segni di usura in posti insoliti...
Tornò sui suoi passi. Cosa c'era di più insolito di quella sottospecie di angolo-salotto? Si acquattò sul pavimento per esaminarlo: sul marmo non c'erano segni, ma dietro uno dei divanetti la carta da parati era disallineata. Bastò spostarlo un po' a destra per rivelare una fessura sulla parete, il perimetro di un rettangolo nascosto dietro la spalliera. Risucchiò un po' di saliva prima che colasse sul mento, poi cominciò a tastare la fessura. Spingendo il riquadro, quello si incassò e poi tornò indietro in uno slancio, rivelando un cunicolo buio in cui Cat si infilò senza esitare. Dopo pochi metri non riusciva più a vedere nulla, la puzza di umido e stantio era così forte da sovrastare quella del cuoio che le era rimasta incastrata nel naso. Più avanti, sottili lame di luce tagliarono l'oscurità in corrispondenza di una griglia metallica, forse una finta presa d'aria che comunicava con il passaggio. Si affievolirono per un istante prima di tornare a brillare, e il suono di tacchi sul pavimento immobilizzò Cat all'istante.
«Stelle, quanto sei difficile» si lamentò Francesca oltre la grata. «Hai detto tu che il risultato è incerto, lasciami almeno tentare. È troppo chiedere un po' di fiducia?»
«Chi si è fidato poi è morto ammazzato» borbottò Gari. «Non lavoro con numeri così sballati. Quella può cambiare idea da un momento all'altro: adesso ti sta dando corda, alla prima cosa che la fa innervosire ti si metterà contro.»
«Benvenuto nel magico mondo degli adolescenti. Sei davvero certo di averne cresciuto uno? Con loro servono pazienza e comprensione, qualità di cui sei evidentemente carente ma che per fortuna a me non mancano. Concedimi del tempo con lei, ti assicuro che sceglierà di stare dalla nostra parte.»
«Liberati di lei, contessa» disse Gari. Cat si avvicinò alla grata per sbirciare, ma non riuscì a vedere altro che una porzione della sua figura seduta sul divano e le gambe di Francesca che facevano avanti e indietro per la stanza. «Può mettersi con noi o contro di noi, la probabilità è la stessa. Ha già mandato a puttane il piano una volta, potrebbe essere la nostra rovina.»
«O la nostra salvezza. Hai visto cosa può fare con il suo Naru? Dotai così potenti possono cambiare le sorti di un conflitto, potrebbe ottenere il controllo della città da sola.»
«Dimentica la città, quel piano è fallito. Senza Vesper siamo scoperti, Luciano manderà i suoi ad ammazzarci non appena scoprirà che abbiamo fatto.»
«Oh, no, non lo farà. Non abbiamo suo figlio, però abbiamo l'unica cosa che può guarirlo.» Francesca afferrò un libro che era poggiato sul tavolo — no, non un libro, il. Quello che avevano recuperato dal labirinto. Picchiettò sulla copertina con le unghie, il tono allegro. Dov'era finito il suo nervosismo? «I Dotai hanno una salute perfetta. Se Vesper ottenesse un Naru, il Sihir potrebbe risolvere il suo problemino alle ossa... Cosa pensi sarebbe disposto a fare Luciano per un Glitza? Mettilo sul piatto e accetterà qualsiasi accordo.»
Cat sgranò gli occhi. Quel coso poteva davvero fare una cosa simile? Sapeva qualcosa sui Glitza – suo padre le aveva spiegato qualcosa dei Glitza. Non aveva mai capito perché si ostinasse a parlare di oggetti così rari che alcuni dubitavano della loro esistenza, ma la risposta divenne così evidente che le bloccò la gola. Deglutì, un po' per sciogliere il magone e un po' per la saliva che si accumulava in bocca. Se avesse davvero voluto tenere il Glitza per sé, non le avrebbe spiegato quelle cose. Sarebbe stato stupido e Quentin non era stupido. Eppure... perché non le aveva mai detto che era il tesoro era un Glitza? È più sicuro in questo modo, diceva, ma aveva solo lasciato domande a cui nessuno avrebbe potuto dare risposte. Cat non le aveva mai cercate, non ne aveva bisogno; si fidava di suo padre. Poteva ancora farlo?
«Verrà a prenderselo dai nostri cadaveri carbonizzati» obiettò Gari. «Lo sanno tutti che un Glitza non si può distruggere.»
Francesca liberò una risata leggera, poi si lasciò cadere sul divanetto accanto a Gari. «E perché dovremmo distruggerlo? Diremo a Luciano che, se non è intenzionato a fare affari, utilizzerò io il Glitza. Non rischierà che vada sprecato, credimi. Su, chiedi ai tuoi dadi.»
Gari liberò un sospiro pesante. I dadi scricchiolarono, sbattendo l'uno contro l'altro un paio di volte prima di fermarsi, e lui li soppesò per qualche istante prima di metterli via. «Maledetta donnaccia. Può funzionare davvero.»
«Certo che può funzionare, è una mia idea» ridacchiò lei. «Prendiamo tempo, riportiamo la situazione in stallo e costruiamoci un nuovo vantaggio. Quando avrò convinto Cathleen a unirsi a noi, i tuoi dadi fioccheranno di possibilità di vittoria, i numeri andranno alle stelle! Luciano non sarà più una minaccia, non avremo neanche più bisogno del compratore o di quell'inetto di mio marito. Con due Dotai dalla nostra, nessuno potrà fermarci.»
«Gran bel discorso, ma con questi numeri le tue parole non significano un cazzo.» Gari si alzò, sistemando il giaccone sulle spalle. «Fai preparare le automobili. Prima ce ne andiamo da questo posto di merda, poi proverai tutti i giochetti che ti pare. Scommetto che gli uomini di Luciano saranno qui a breve, voglio muovermi prima che blocchino le strade.»
«Che uomo noioso» borbottò Francesca. «Credevo fossi uno scommettitore. Un amante del rischio. Perdi le vincite migliori se agisci solo quando le probabilità sono abbastanza alte, un giocatore d'azzardo dovrebbe saperlo.»
«Taci, donna. Non hai capito un cazzo del mio Naru. Si fa come dico io, fine della storia.»
Francesca sbuffò in un verso offeso, ma Cat non si curò di ascoltare la sua risposta. Gli uomini di Luciano si stavano dirigendo lì... Ci sarebbe stato anche Vesper, con loro? E Kolt? Sarebbe venuto a salvarla?
Che sciocchezza. Sarebbe venuto a recuperare il Glitza, semmai. A cercare vendetta. Lei aveva perso ogni utilità nel momento in cui il forziere era stato aperto.
Si tastò il fianco, senza sacchetto di mandorle né pistola. Alla fine le avevano tolto anche quella. Forse era stato solo un trucco per manipolarla, però sentiva la sua mancanza, il fastidio del vuoto. Odiava quella sensazione. Odiava quella disgustosa cintura tra i denti, e i tagli che bruciavano sulle dita, e la stupida umidità che rendeva l'aria irrespirabile. Odiava che aveva il petto sommerso di così tante emozioni che non le capiva più, odiava non avere idea di cosa credere, cosa pensare, cosa sentire. Avrebbe solo voluto distruggere tutto.
Può mettersi con noi o contro di noi, la probabilità è la stessa.
Finissero nell'oblio! Ne aveva abbastanza di essere rapita, usata, manipolata o presa in ostaggio. Solo lei poteva decidere da che parte stare.
Si mosse a ritroso nel cunicolo e sgusciò fuori, senza curarsi di richiudere il passaggio. Chi poteva permettersi un'automobile non la lasciava parcheggiata all'esterno; le ville avevano quasi tutte dei garage sotterranei, locali che potevano raggiungere senza dover uscire di casa, perciò Cat si precipitò giù per le scale. Tastò la parete alla ricerca dell'interruttore e tirò giù la leva. La luce inondò uno spoglio corridoio di pietra levigata che collegava sala caldaie, cantina e altre zone che Cat si premurò di ignorare. Riprese a correre, aprendo una porta dietro l'altra fino a trovare quella giusta: oltre l'uscio, un'ampia zona asfaltata si apriva al centro per poi restringersi in una rampa sul fondo, innalzando il suolo fino alla serranda metallica che separava il garage dall'esterno. Quattro automobili erano parcheggiate in file ordinate, musi rivolti alle pareti, con le carrozzerie sgargianti tirate a lucido e i vetri puliti. Nella forma si somigliavano un po' tutte – tozzi cubicoli di metallo con tettoie scure e tubi di scarico che fuoriuscivano dai musi lunghi – ma ognuna aveva qualcosa di eccentrico: una era talmente lunga da avere ben tre portiere, un'altra aveva un tettuccio morbido che a occhio e croce si poteva tirar giù e la terza aveva linee morbide e un comignolo che la rendeva più simile a una locomotiva.
Si avvicinò all'ultima, circondata da tubature sottili che si attorcigliavano come rami d'edera e ingranaggi che spuntavano qua e là come fiori. Armeggiò con il cofano finché non riuscì a sollevarlo, rivelando un groviglio di condotti, pistoni e valvole in cui non avrebbe saputo mettere mano. Non aveva idea di come funzionassero quegli affari, ma bruciavano una Pietra di Sihir per alimentare il motore e, senza quella, un'automobile era solo un inutile pezzo di ferraglia. Doveva trovarsi dentro la fornace, che forse era quel grosso ammasso metallico al centro... Però non riusciva ad aprirlo. Cerco di svitare i bulloni, ma le dita scivolavano sul ferro senza trovare presa e i tagli scagliavano fitte di dolore a ogni tentativo. Ringhiò, tirando un calcio alla ruota.
Il motore non si smonta, la placò la voce di Quentin, cosa fai?
Afferrò uno dei sostegni metallici che tenevano aperto il cofano e cominciò a tirare. Strinse la cintura tra i denti e fece leva sull'automobile con tutto il corpo, poi gli agganci saltarono e il braccio schizzò all'indietro con tanto slancio che dovette reggersi per non cadere. Cat osservò il suo bottino: il tubicino era così sottile che si era già piegato, ma aveva estremità appuntite e pugnalò il copertone con tutta la forza che aveva. La gomma cedette in un sibilo d'aria, sgonfiandosi quando ritirò la mano.
Scappatene a piedi, stronzo, pensò mentre ficcava il pezzo di metallo nelle altre ruote. Le bucò tutte e quattro e passò alla seconda automobile, poi alla terza, infilzando uno pneumatico dopo l'altro. Aveva appena cominciato con la quarta quando dei passi rapidi risuonarono nel corridoio. Maledizione! Avevano già finito di parlare? Quelli però non erano tacchi, e l'andatura era troppo leggera per appartenere a Gari. Dovevano aver mandato qualcun altro, una guardia o un domestico; il secondo avrebbe potuto gestirlo, ma se si fosse trovata contro una pistola...
Corse su per la rampa. Dal corridoio qualcuno urlò e accelerò il passo, Cat pregò che la serranda non fosse chiusa a chiave quando provò a sollevarla. Non lo era. La tirò su con uno slancio sufficiente ad aprirla di oltre mezzo metro, ma quando fu sul punto di chinarsi e sfrecciare fuori si fermò. All'interno la villa era pressoché vuota, ma fuori... Se aspettavano gli uomini di Luciano, fuori pullulava di guardie. L'avrebbero beccata dopo pochi metri, forse non appena avesse messo piede all'esterno.
Fatti furba, ragazzina.
Scattò all'indietro, il cuore che pompava frenetico fino in gola. Strisciò sotto la seconda automobile, quella più lunga, e si sdraiò a terra con le braccia adese al corpo e una lastra di metallo scuro a pochi centimetri dal naso. Trattenne il fiato, stringendo il tubicino tra le dita sudate. I passi si fecero più vicini, rapidi, pesanti. Divennero una corsa che riecheggiò nel garage insieme a una bestemmia, insulti bofonchiati a mezza bocca da una voce maschile. Le scarpe dell'uomo strisciarono accanto all'automobile dal cofano aperto, sorretto da un solo sostegno. Cat scorse i lembi del pantalone scuro, le lucide scarpe di pelle nera che non appartenevano a un domestico. Il cuore sembrava sul punto di schizzare via e strinse più forte le mani contro il petto.
«Piccola disgraziata—»
L'uomo si piegò sulle ginocchia per osservare le ruote. Cat trattenne il fiato, pregò il Signore della Luce e tutti gli Angeli che non si voltasse per controllare le altre. Sudore freddo scivolò sulla fronte in un istante infinito, il lungo fischio tra le orecchie di un silenzio troppo denso. L'uomo si alzò, l'ennesima bestemmia stretta tra i denti. Corse su per la rampa, poi i suoi passi affondarono nella ghiaia e Cat seppe che era uscito fuori per cercarla.
Il fiato si riversò fuori tutto in una volta. Riprese aria così in fretta che le venne da tossire, si girò di lato per non soffocare con la sua stessa saliva. Chiuse gli occhi e si concesse un istante per smettere di tremare, e far capire al cuore che poteva smettere di agitarsi – solo un istante, non di più. Doveva muoversi prima che arrivasse qualcun altro, trovare un nascondiglio dove aspettare il momento giusto per fuggire. Strisciò fuori dall'automobile, si guardò attorno prima di rimettersi in piedi, poi sgattaiolò di nuovo nel corridoio.
       
               
Ce l'abbiamo fatta 🔥Scrivere questo capitolo è stata un'impresa, non per il capitolo in sé quanto più per il periodaccio che mi ha drenato di tempo ed energie X_X Ahimè non mi sono ancora liberata e non so quando riuscirò a scrivere il prossimo... MA ARRIVERA', NON TEMETE!
Anyway, torniamo dalla nostra Cat a cui è stata letteralmente messa una "museruola", poraccia :') Gari ha insistito perché venisse legata, ma Francesca le lascia libere le caviglie e questa leggerezza le consente di orchestrare la sua fuga.
Riguardo sua madre, Cat è ancora molto confusa: non vuole credere alle sue parole su Quentin, ma lei sembra sincera... Gari però è tutt'altra storia! Col cavolo che lo lascia fuggire così, come minimo DEVE provare a mettergli i bastoni tra le ruote. Sarebbe stato più furbo fuggire o starsene buoni con Francesca? Sicuramente, ma l'impulsività fa parte di Cat e così il suo agire seguendo le emozioni.
Sta pian piano mettendo a frutto ciò che ha imparato, però: sfrutta i consigli, prova a ragionare, si mette in gioco. Sarà pur lenta, ma è una bella crescita ♥ Voi che ne pensate?
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