Personal Jesus
Si staccarono appena.
Il tempo di riprendere fiato.
Il tempo di ricordarsi dove finiva l'uno e iniziava l'altro... e dimenticarlo di nuovo, subito dopo.
Le labbra di Izuku erano arrossate, lucide, leggermente gonfie.
Quelle di Katsuki appena dischiuse, come se il respiro gli fosse rimasto a metà.
I loro petti si sfioravano a ogni respiro, uno contro l'altro, sollevandosi in asincronia, come onde che non riuscivano più a trovare la riva.
Katsuki aveva ancora una mano stretta sulla canottiera nera, ormai madida di sudore. Il tessuto era incollato addosso a Izuku, e le sue dita lo stringevano come se volessero trapassarlo.
L'altra mano era ancora aperta, appoggiata al muro accanto al volto di lui, a tenerlo chiuso lì, a sigillare il mondo fuori.
Gli occhi si incontrarono. E fu come se il tempo si congelasse, sospeso in quell'istante.
Verde e rosso.
Tensione e tenerezza.
Fame e sete.
Un fiume di parole mai dette, riversate in uno sguardo.
Izuku sentì il fiato caldo di Katsuki sulle labbra, sul naso, sulla guancia.
Il suo profumo era ovunque. Sapone neutro, il cocco del drink, il dolciastro della pelle sudata e il sale portato dalla brezza.
Un misto inebriante. Un odore che gli si sarebbe stampato nella testa e tra le dita per giorni.
Le loro fronti si sfiorarono, i nasi appena in contatto, e quel gesto lieve, quasi infantile, contrastava violentemente con tutto ciò che ribolliva sotto la loro pelle.
Le dita si muovevano, lentamente, tracciando linee nervose sui fianchi sudati e lo guardava da vicino, troppo vicino.
Gli occhi rossi che bruciavano e scintillavano, come se volessero dire tutto quello che per anni aveva nascosto sotto strati di urla e orgoglio.
E ora che lo aveva lì, così vulnerabile e così vivo, si accorse che non gli bastava più sentirsi voluto.
Voleva sentirlo dire.
Le sue dita sfiorarono il mento di Katsuki, lo costrinsero ad abbassare appena il capo.
Gli occhi semichiusi, la voce appena un soffio sulle labbra umide: «Lo volevi... da quanto, Kacchan?»
Non era una domanda detta a voce.
Era scritta nei gesti. Nel modo in cui Katsuki gli accarezzava il fianco, la mano ferma ma tesa.
Nel modo in cui le dita di Izuku cercavano le sue, come se non volesse lasciarlo scappare. Come se avesse paura che tutto questo potesse svanire, come sempre.
Si guardarono così per un tempo sospeso.
Gli occhi di Izuku non tremavano: erano fissi nei suoi, fissi come mai prima, e non c'era imbarazzo. Non davvero, anche se vedeva le guance più scure. In quegli occhi c'era qualcosa di più profondo, di più pericoloso.
Una pausa.
La sabbia calda sotto i piedi sembrava vibrare allo stesso ritmo del suo cuore, con le labbra ancora vicine, i respiri che si mescolavano, le mani strette addosso.
Katsuki non rispose subito, ma deglutì. Una sola volta.
Abbassò gli occhi, poi li rialzò e sorrise. Quel sorriso spezzato, incredulo, che usava solo quando cedeva, quando le difese gli crollavano e restava solo il suo cuore, quello vero, sporco e nudo.
La mano prima appoggiata al muro si fece strada tra i capelli verdi, lenta, quasi timida, poi strofinò il naso contro il suo, come se fosse un gatto in cerca di coccole, un gesto così tenero da sembrare fuori posto.
I loro respiri si incastrarono, come un ingranaggio che tornava a girare, rimettendosi finalmente in sincrono.
E lui parlò, la voce roca, sincera: «Dal giorno in cui sei rimasto ad aspettarmi.», un attimo di sospensione. «Ti ricordi? Quella volta che sono tornato tardi dalla clinica... e tu eri lì ad aspettarmi in sala comune. Gli occhi gonfi di pianto e fradicio come un pulcino...»
Izuku sgranò gli occhi e per un istante sembrò non avere più aria nei polmoni: ricordava quel giorno, in cui lui era sparito e nessuno sapeva dove fosse. L'aveva cercato ovunque, anche quando un acquazzone improvviso aveva reso lucida e fresca la città. S'era disperato fino a quando non era tornato al dormitorio e l'aveva visto rientrare poco dopo, come se nulla fosse. Si era nascosto, mentre il sollievo gli riempiva pian piano le vene.
Con un mezzo sorriso rotto, gli sussurrò piano: «Pensavo non te ne fossi accorto...»
«Mi sono accorto di tutto. Sempre. Solo che... non sapevo mai cosa cazzo fare...».
Poi Katsuki si leccò appena il labbro inferiore, istintivo, nervoso lo sguardo che finiva sulle labbra di Deku, prima di rialzarsi e tornare a fissare quei cupi smeraldi, resi brillanti da una lama di luce che proveniva dal faretto tra gli oleandri.
Izuku trattenne il respiro.
Il battito era impazzito: sentiva il cuore martellargli contro il petto come se volesse uscire.
Respirava da lui, il suo stesso fiato, la distanza minima che li separava sembrava permetterlo e un brivido li attraversò entrambi.
Poi, come se la stessa distanza di quel respiro fosse diventata addirittura intollerabile, si cercarono di nuovo.
Izuku si sollevò sulle punte, le dita affondate nel colletto aperto della camicia, e lo baciò come se da quel bacio dipendesse ogni respiro che gli era mancato fino a quel momento.
Non con furia, ma con necessità, con un'urgenza più profonda: quella di non sprecare più tempo.
Le labbra di Katsuki ritrovarono le sue, più lente stavolta, ma non meno intense e la bocca si aprì con una naturalezza che parlava di attese e di abitudini sognate, e la lingua sfiorò quella di Izuku con una dolcezza bruciante.
Il biondo gli rispondeva con tutto: rabbia, amore e sollievo. Con un suono impercettibile ma roco, e a Izuku parve di sciogliersi.
Le gambe gli tremavano e ricambiò come chi non ha mai avuto niente, e adesso aveva tutto, come chi ha pregato in silenzio per anni, e ha finalmente visto scendere un dio tra gli uomini.
Un Dio tutto personale, arrogante e meraviglioso. Il suo Dio.
I corpi erano stanchi, sudati, ma non abbastanza da fermarsi.
Non dopo tutto quel tempo in cui non si erano mai capiti ma sempre cercati e sostenuti.
Le loro bocche si muovevano come se si conoscessero da sempre, come se fossero state fatte per trovarsi solo così.
Le mani si muovevano da sole, spinte solo dal bisogno; s'infilarono sotto la camicia aperta di lino, scivolando sulla pelle bollente del petto, sui muscoli tesi.
Lo toccava come se avesse paura che smettesse di esistere appena distoglieva lo sguardo.
Lo segnò con i polpastrelli, con la punta delle dita. Poi anche con le unghie. Un graffio lungo il fianco. Non violento, solo... come se volesse dirgli "ti vedo", magari "ti voglio", di sicuro un "finalmente sei qui".
I fianchi si mossero da soli, come se il ballo non fosse mai davvero finito.
Katsuki si avvicinò ancora, il bacino quasi contro il suo.
Un impulso attraversò entrambi, come una scarica elettrica.
I tessuti rivelavano tutto: le erezioni, i tremori, i brividi.
Ma nessuno dei due si tirò indietro. Anzi: fu Katsuki a stringerlo con entrambe le mani sui fianchi, attirandolo a sé con più forza, schiacciandoselo contro il petto.
Sentiva il suo calore ovunque: sotto la pelle, dentro lo stomaco.
Izuku ansimò piano a sua volta, un respiro spezzato contro la bocca di Katsuki appena sentì quello sfregamento
Gemeva piano di sollievo, di desiderio. Di tutto quello che aveva represso per anni.
Una falena svolazzò tra i fiori accanto a loro, bianca e lieve come zucchero filato.
C'era la brezza che frusciava tra le foglie, un grido lontano, dalla pista, una canzone più veloce, ma lì... lì il tempo non correva più.
La mano di Katsuki si spostò sulla sua schiena, scivolando verso il fianco, poi più giù, poi risalendo con forza, come se non volesse solo accarezzarlo... ma tenerlo insieme.
Lo strinse e Izuku lo lasciò fare.
Perché era un po' come ballare ancora, ma senza musica.
Le bocche si staccarono di nuovo solo per necessità.
Perché l'ossigeno serviva.
Perché il battito cardiaco stava facendo tremare le ginocchia di entrambi, e in quella pausa, mentre i respiri si fondevano e le fronti si sfioravano, si guardarono ancora.
Izuku, occhi socchiusi, aveva le dita che si muovevano con urgenza cieca sui bottoni aperti della camicia di Katsuki, seguendo la scia del suo stesso respiro.
Lo toccava come se dovesse impararlo a memoria prima di svegliarsi, come se quell'attimo non dovesse durare.
Katsuki aveva lo sguardo basso, fisso sulle labbra di Izuku che si muovevano appena, schiuse e umide, come se stessero per dirgli qualcosa, ma poi non lo facevano mai.
Ogni parola era rimasta lì, tra le lingue, e quello bastava.
Fu il biondo a tornare all'attacco, un altro slancio con più forza, con più presa.
Lo spinse di nuovo, stringendolo per i fianchi, alzandolo quasi da terra per portarlo più contro di sé, per schiacciarlo al muro, per sentirlo fremere, se l'altro gli si aggrappò al collo.
Non c'era più vergogna, nè pudore o paura.
Solo due ragazzi che avevano passato la vita a desiderarsi senza capirlo, e adesso avevano il cuore aperto e le mani sporche di voglia.
Non ci fu esitazione: i palmi si spostarono e gli prese il sedere con entrambe le mani. Una palpata piena, decisa.
Lo strinse come se volesse sollevarlo, come se lo stesse scolpendo nei palmi e Izuku ansimò di un suono basso, profondo, che si incastrò in gola e poi gli esplose tra le labbra.
Lo spinse contro la parete senza dirgli niente, e Izuku ci si lasciò adagiare come un'offerta.
Gli occhi lucidi che si chiusero di colpo, il sorriso spezzato, le mani ovunque. Le unghie, sul petto del biondo, affondarono appena nella pelle.
Il biondo abbassò il volto sul suo collo, inspirando perché la pelle di Deku aveva lo stesso profumo del gelsomino, misto a sale, sudore e desiderio.
Izuku lo sentì. Sentì la bocca calda contro la pelle, il fiato rovente, i denti che lo sfioravano e gli facevano venire una corrente di brividi lungo le spalle e le braccia.
Gli morse il collo, non forte, solo abbastanza da fargli perdere il respiro.
«Ka...cchan...», ansimò contro la sua tempia, mentre le dita gli scivolavano sulla schiena, stringendo il tessuto umido della camicia.
«Taci.». Fu tutto ciò che Katsuki disse.
Spalancò gli occhi e glieli mise addosso e gli afferrò la schiena, lo tirò contro di sé, con un urto scomposto, le gambe quasi in bilico tra la sabbia e il legno. «Dio...» gli sussurrò sul collo, senza pensare. E quello, in risposta, gemette piano e lo strinse ancora e ancora, baciandolo di nuovo mentre le lingue si rincorrevano.
E Izuku? Oh, lui lo lasciò fare.
Sentì il bisogno suo e quello di Kacchan.
Si fece baciare, stringere, pizzicare sotto il mento con i denti, accarezzare con i palmi ruvidi.
Il fiato si mescolava, si incollava alle bocche e al sudore.
Uno dei rami di oleandro si scosse, sfiorandogli appena la spalla scoperta di Izuku e il cielo sopra di loro era stellato, distante, indifferente.
E lui non riusciva a smettere di sorridere contro la bocca di del biondo.
Si lasciò dominare finché non capì una cosa: Kacchan era perso. Fottutamente perso in lui.
E a quel punto, tanto valeva affondare insieme, perché anche lui lo voleva e ne percepiva i fremiti sotto le sue mani, il cuore gli batteva in gola, ma non si fermava.
Non ce la faceva.
Così si mosse.
Si staccò di colpo dalla parete.
E prima che Katsuki potesse ribattere con uno dei suoi classici «dove cazzo credi di andare», gli afferrò il polso e lo girò.
Con un colpo secco di anche, invertì la posizione: ora era Kacchan con le spalle al muro.
Gli occhi verdi brillarono come smeraldi sotto la luce calda dei lampioncini sospesi.
Izuku non disse nulla, solo... si abbassò di qualche centimetro, spingendosi con una gamba tra le cosce del biondo, piegandosi in modo naturale, istintivo, lo stesso gesto che aveva fatto Kacchan in pista.
E fu lì che Katsuki sentì quel contatto pieno: una spinta della coscia.
Quel fottuto miracolo.
Izuku lo strusciava piano, con la forza di un corpo che sapeva cosa voleva anche se era la prima volta. Le sue mani scorrevano sui fianchi di Katsuki, poi sui suoi addominali.
Lo sentiva fremere, sussultare, indurirsi forse ancora più di ciò che aveva solo immaginato
La presa sui suoi fianchi vacillò. «Deku...» ringhiò, ma era aria calda e la voce grattava come sabbia in gola.
Lui gli sorrise, gli prese i polsi e glieli fece poggiare dietro, sul bordo ruvido della parete di legno all'altezza delle spalle o poco oltre, come a dirgli: fermati. Lasciami fare.
E quando si abbassò, lentamente, il ginocchio nella sabbia, il cuore in gola e le mani che scorrevano piano sul tessuto ruvido dei suoi pantaloni scuri, Katsuki lo guardò con la testa che pulsava e il fiato che già mancava.
Izuku era consapevole di non aver mai fatto nulla del genere, ma la sola idea di fare star bene Kacchan lo stava mandando fuori di testa.
Sollevò lo sguardo.
Rosso contro verde, ancora una volta, e spostò le dita sul bordo dei pantaloni.
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