xv. il peso di una confessione
C A R L O S
Il Torneo non era una gara di matematica.
Decisamente no.
Non appena l'enorme campo verde era comparso davanti a lui, si era sentito sprofondare la terra sotto i piedi. Non aveva mai visto niente di simile: il cortile della Dragon Hall non era così grande! Quello che si era trovato davanti, invece, sembrava non finire più. Circondato per una metà da un bosco e per l'altra da platee blu, il terreno dove si svolgevano le partite di Torneo era ciò di quanto più immenso avesse mai visto.
Era questo quello che intendevano ad Auradon per "ora di educazione fisica"? Un intero spazio dedicato a chissà quale gioco strano, compreso di cannoni spara-sfere di gommapiuma? Carlos poteva già sentire il male alle gambe, al solo pensiero di dovervi correre intorno—o addirittura dentro!
Ma Jay non aveva sentito scuse. Lo aveva preso di forza e trascinato in campo, nonostante le continue proteste del figlio di Crudelia sull'essere una schiappa in qualunque sport.
Alla Dragon Hall era un fatto certo, ormai. Carlos De Mon non aveva resistenza, forza, riflessi, o qualsiasi altra cosa utile in un'attività sportiva. Aveva perso il conto del numero di volte in cui era stato preso in giro per questo. I gemelli Gaston erano i suoi principali aguzzini. Solo quando era riuscito ad entrare nella banda di Mal avevano smesso di punzecchiarlo: a quanto pareva, essere amico della figlia di Malefica ti rendeva automaticamente intoccabile. Non che a Carlos avesse dato fastidio.
Tuttavia, in generale, al figlio di Crudelia non era mai importanto molto. Sapeva di essere estremamente più intelligente dei suoi compagni dell'isola, e cercava di passare sopra a questo genere di cose. Anche se a volte potevano essere frustranti.
Perciò, alla fine, si era semplicemente arreso all'idea che non potesse sfuggire a Jay e alla sua presa d'acciaio, con la conseguenza di dover per forza partecipare alle selezioni per la squadra della scuola.
E sì, esattamente come aveva immaginato, non aveva fatto una bella figura.
Si chiedeva ancora come avesse fatto il figlio di Jafar a capire le regole del gioco senza averne mai visto una partita.
Insomma, sull'isola tutto ciò che si poteva considerare lontanamente uno "sport" o una "gara" era quella che lui, Jay e Mal (e chiunque altro in quella macchia di terra) facevano ogni giorno: ovvero chi riusciva a rubare in meno tempo più oggetti preziosi.
Eppure il suo amico sembrava nato per questo: correre, saltare e tirare quella stupida palla di stoffa in rete.
Il campo dove giocavano era diviso in tre parti: da un lato, la difesa della loro squadra, i Cavalieri di Auradon; dall'altro, la difesa del team avversario; ed infine, al centro, la cosiddetta "Area di Attacco", dove i giocatori potevano essere colpiti in qualsiasi momento da delle sfere di gommapiuma volanti, lanciate da dei cannoni ad alta velocità. E Carlos pensava che giocare a Sette Minuti In Paradiso sull'isola fosse pericoloso!
In poche parole, Jay era andato benissimo, tra capriole in aria, salti all'indietro, e tiri portentosi in porta. Lui, invece, non aveva fatto altro che coprirsi per tutto il tempo con lo scudo di legno che veniva dato ai difensori. Emozionante, vero? Il suo amico, pur di segnare un punto, lo aveva addirittura calpestato!
Morale della favola? Il figlio di Jafar era entrato nel team, mentre quello di Crudelia si era dovuto beccare in faccia le risate dei principini di Auradon, comprese quelle di un amico di Esme, Chad Charming, il figlio di Cenerentola. Carlos non aveva perso tempo a catalogarlo come uno degli idioti più idioti del reame. Per non parlare del coach della squadra che gli aveva consigliato di darsi alla banda della scuola.
Già. Non era andata per niente bene.
E poi, ah! Era quasi ironico il fatto che, a salvarlo da quell'incubo, ci aveva pensato non altri che Hunter delle Isole del Sud.
Con tutto il problema del foglietto trovato nella camera di Richard e i vari incantesimi di memoria, alla fine lui e Jay erano stati costretti ad interrompere l'allenamento.
Anche se, poi, con quello che era successo, avrebbe quasi preferito rimanere in campo: almeno, stare al sicuro dietro ad uno scudo di legno, sarebbe stato molto meno doloroso che guardare una certa figlia di Esmeralda svenire addormentata in camera dell'erede dei Radcliffe.
Gli era impossibile negarlo, ormai.
A Carlos piaceva Esme. E non ci voleva un genio per capire che lei provava lo stesso. Magari ci sarebbe voluto molto per farglielo ammettere, quello sì, e questa era una delle cose che lo spaventava di più.
Lui e i suoi amici erano ad Auradon da più di due settimane. Per quanto ancora i loro genitori avrebbero aspettato? Per quanto ancora sarebbero rimasti pazienti, in attesa che venisse portata loro la bacchetta? Non potevano di certo rimanere lì per un anno!
E mentre una parte di lui era preoccupata di non riuscire a rendere orgogliosa sua madre, riuscendo a liberare i Cattivi, l'altra si chiedeva cosa sarebbe successo ad Esme una volta completata la missione.
Carlos non aveva mai pensato di poter essere spaventato da qualcosa che non fossero gli schiaffi di sua madre.
Eppure eccolo lì, alle sei e mezza del pomeriggio, diretto di nuovo verso il campo del Torneo, pronto (più o meno) ad essere allenato da Ben . . . ed Esme.
Sì, avete capito bene. Esme.
Il giorno prima, esattamente dopo il suo fiasco alle selezioni per la squadra, il principe Ben, anche lui parte del team, gli era venuto incontro con un largo sorriso, chiedendogli se volesse un po' d'aiuto per migliorare le sue capacità.
Carlos era stato un po' restio ad accettare per vari motivi: primo fra tutti era che un Cattivo non chiedeva aiuto, né aveva bisogno d'aiuto. Se una cosa del genere fosse successa alla Dragon Hall, molto probabilmente sarebbe diventato lo zimbello della scuola. Seconda ragione, Ben gli aveva detto della possibile presenza della Principessa Esme.
In un primo momento aveva pensato di aver sentito male. Non era possibile che Esme, la ragazza-sempre-in-rosa-e-fiorellini, ne sapesse qualcosa di uno sport duro e sporco come il Torneo.
"Oh, Esme giocava nella nostra squadra alle medie!" aveva detto Ben. "Poi, un giorno, ha semplicemente smesso, dicendo che si era fatta male e che quindi non poteva più allenarsi con noi".
Un altro mistero da aggiungere alla lista — aveva pensato Carlos — Dalmata, questa ragazza diventa più intrigante ogni giorno che passa!
Non c'era ora del giorno in cui non pensasse alla principessa. Il suo modo di agire aveva un non so che di misterioso . . . come se prima di fare o dire qualcosa ci ragionasse almeno venti volte, quasi non volesse far uscire un lato segreto di sé.
Alla fine, però, Carlos aveva accettato—forse per dimostrare qualcosa a Jay, forse per rivedere Esme. Sta di fatto che quasi non scappò dal campo quando, ad aspettarlo, scorse da lontano una certa principessa, ferma e a braccia conserte.
«Sei in ritardo» lo rimproverò con un sorrisetto divertito.
Ed ecco che quella scintilla malevola era tornata nei suoi occhi d'onice. Sembrava la riservasse solo a lui.
Nonostante ciò, qualcosa si mosse nel petto di Carlos: il suo cuore aveva iniziato a battere più velocemente del normale, come sembrava fare ogni volta che la ragazza era nei paraggi. E come ogni volta, per risparmiarsi qualsiasi tipo di imbarazzo, decise di ignorarlo.
«D—Dov'è Ben? Mi aveva detto che sarebbe venuto» disse, cercando di apparire disinvolto. In realtà stare da solo con la principessa lo rendeva incredibilmente nervoso.
Era da un paio di giorni che si sentiva così attorno a lei. Come se qualcosa dentro di lui gli stesse dicendo di girare alla larga. Quasi come se un'oscurità sopita lo stesse mettendo in guardia. Decise di ignorare anche questa sensazione.
«Ha avuto un contrattempo. Sai, la sua incoronazione è vicina, e i suoi non gli danno un attimo di tregua» spiegò la ragazza. «Quindi, credo che ti dovrai accontentare della sottoscritta!».
A queste sue parole, Carlos non potè nascondere un sorriso.
Ed Esme sembrò notarlo, perché si morse una guancia, tentando di nascondere il proprio. Poi scosse la testa.
«Perfetto! Diamoci da fare! Prima finiamo e prima potrò andare a salutare Audrey» disse, prendendo un borsone ai suoi piedi e spostandosi verso il confine del campo. «Inizieremo con alcuni scatti, giusto per testare la tua velocità, ci stai?».
In tutta onestà, il figlio di Crudelia era rimasto a bocca aperta. Quella che aveva davanti non era la solita Esme, quella acida, perfettina, ossessionata dall'educazione e anche un po' logorroica. Questa era rilassata, sorridente, incurante dell'etichetta e, gli era sembrato, anche un po' maliziosa. O era successo qualcosa di cui non era al corrente, oppure la figlia di Esmeralda si era finalmente lasciata andare di fronte a lui. Forse quella che parlava era la vera Esme.
Insomma, parliamoci chiaro: la solita Esme non userebbe mai, in pubblico, l'espressione "ci stai".
«Ehi, De Mon, ti sei incantato? Sbrigati, che non ho tutto il giorno».
Proprio questa sua uscita lo fece riprendere, annuendo, e posizionandosi all'estremo del campo.
La sua mente viaggiava a mille, ripercorrendo in tutti i modi i giorni passati, nella speranza di ricordare un momento nel quale fosse cambiato qualcosa. Ma per quanto si sforzasse, non sbucava niente.
Mettendosi in posizione, accovacciato e con i polpastrelli a terra, scoccò un'occhiata alla figlia di Esmeralda. Il sorriso che le incorniciava il volto lo metteva a disagio. Tuttavia, si costrinse a rilassarsi, prendendo un respiro profondo.
«Bene: tre . . . due . . . uno . . . vai!» urlò, cliccando il pulsante del cronometro che teneva al collo.
Stava giusto per darsi forza con le gambe, pronto ad alzarsi e correre, quando un verso orribile e fin troppo familiare arrivò alle sue orecchie.
BAU!
Carlos scattò come una molla, mentre il sangue gli si gelava nelle vene.
Iniziò a correre come non aveva mai fatto, per la sua vita, talmente veloce da poter sentire il vento nei capelli. La vista gli si appannò quasi subito, delle piccole lacrime che si formavano nei suoi occhi.
Dietro di lui poteva sentire chiaramente le grida felici di Esme, che lo spronavano a continuare (come diavolo poteva sorridere quando lui era in pericolo di morte?!), e lo spaventoso abbaiare di— di un CANE!
Ormai era partito in quarta—le sue gambe avevano vita propria: non riusciva più a fermarsi, tanto era terrorizzato. E non voleva fermarsi. Non ne aveva la più minima intenzione.
La sua più grande paura era appena diventata reale, anche troppo reale: lo stava inseguendo, e Carlos non aveva il coraggio di girarsi indietro per darci un'occhiata. Sicuramente era una bestia orribile, dai denti acuminati e con la bava che gli usciva dalla bocca. Se si fosse fermato la sua vita sarebbe finita.
Non si era reso manco conto di aver percorso l'intera lunghezza del campo e, quando vide il confine di questo stagliarsi davanti a lui, non ci pensò due volte a tuffarsi nel mare di alberi che lo circondava.
«Carlos?» sentì dietro di sé. «CARLOS!».
«AIUTAMI, TI PREGO!» urlò a pieni polmoni, sperando con tutto se stesso che Esme lo udisse e venisse in suo soccorso.
Il figlio di Crudelia incalzava nella foresta, incurante dei rametti e delle foglie che gli pizzicavano le guance. Il sole batteva incessante sopra di lui, mentre i suoi sensi sembravano quasi acuirsi, tanto andava veloce: poteva sentire ancora l'abbiare della bestia e le grida di Esme, che lo implorando di fermarsi; nelle sue orecchie si mischiavano i cinguettii degli uccelli, il battere di un picchio, e il fruscio degli alberi. Perché dalmata poteva udire tutte quelle cose?!
Strinse i denti quando, davanti a lui, comparve un enorme tronco che bloccava la strada. Era un vicolo cieco. O almeno poteva sembrarlo. Oh, no, non mi fermerò adesso. Non darò il tempo a quella bestiaccia di raggiungermi e mangiarmi per pranzo.
Con un agilità che neanche lui sapeva di avere, mise tutta la sua forza nel braccia, posandole sul tronco e tirandosi sù. Si girò di lato, portando le gambe sulla roccia lì accanto, quasi correndoci sopra. Quando tornò con i piedi per terra, fece una piccola capriola per attutire la caduta.
Due secondi dopo era di nuovo in piedi, completamente distrutto, col fiatone, e il sudore che gli calava dalla fronte.
Osservò ad occhi spalancati il tronco che aveva superato. A quanto pareva, saltare da un tetto all'altro dell'isola aveva dato i suoi frutti.
Si buttò a terra, incurante delle foglie e del terriccio bagnato che caratterizzava la foresta.
Tirò un sospiro di sollievo. Credo di averlo seminat—
«Rudy! Dai, bello, vieni qui».
Il figlio di Crudelia scattò di nuovo in piedi, pronto a continuare la sua corsa, quando, da dietro il tronco, vide spuntare Esme. Stava provando a scalarlo anche lei, ma non sembrava star avendo molta fortuna.
Aveva i capelli completamente scompigliati, e tra alcune ciocche spuntavano addirittura dei rametti. E il cipiglio che aveva in viso lo fece rabbrividire ancora di più.
«Io, argh, ti uccido! Hai idea di che fatica sia stata, puff, starti dietro! Cosa diavolo, uff, pensavi di fare?!» gridò tra uno sforzo e l'altro.
Il ragazzo fu tentato di risalire e darle una mano, ma poi riudì lo stesso verso di prima.
Bau!
«No, Rudy, sta giù! Ci . . . pant . . . penso io!».
Quando la principessa, dopo numerosi tentativi, riuscì ad arrivare dall'altro lato, atterrando sulle sue ginocchia (a questo, Carlos era pronto ad aiutarla, ma l'occhiataccia che ricevette lo fece cambiare idea), si lasciò scappare dalle labbra un grugnito sollevato.
Esme si alzò, pulendosi con le mani i leggins ormai sporchi di terra. Storse il naso quando vide un po' di sangue iniziare a bagnarle una gamba.
Il figlio di Crudelia non aspettò ancora. Con una falcata le si avvicinò, ignorando il "no" che gli rivolse lei, mettendole un braccio intorno alle spalle e aiutandola a sedersi su una pietra lì accanto.
«Mi dispiace!» sputò subito il ragazzo, adocchiando preoccupato il taglio che si era aperto sul ginocchio destro di lei. «Fa male?».
«Be', di certo non fa bene!» ribattè la figlia di Esmeralda, con un sarcasmo che Carlos non le aveva mai visto addosso. A quanto pareva, questa era veramente la vera Esme. O almeno lo sperava.
La smorfia di dolore che seguì subito dopo lo fece andare nel panico.
«Sta tranquillo» lo richiamò lei. «Non è una ferita grave, basterà solo un po' d'alcool e un cerot—».
Bau! Bau!
Carlos lanciò un urletto, alzandosi e scalando in pochi attimi un albero lì accanto.
«Cosa—» iniziò la principessa, osservando sconcertata il Cattivo aggrapparsi con tutte le sue forze al tronco dell'albero. «Si può sapere cosa stai facendo?».
«A te cosa sembra?! Scappo da quella cosa!» abbaiò il figlio di Crudelia, indicando con un braccio il piccolo cane alle radici dell'albero.
«Da Rudy?».
«Hai dato un nome a quella cosa?!».
«Ehi! Quella cosa è viva e ha dei sentimenti!» protestò Esme, avvicinandosi a lui, seppur zoppicando. «Dai, Rudy, seduto!».
Con grande sorpresa di Carlos, la bestia obbedì in un batter d'occhio.
La Buona ridacchiò, abbassandosi e prendendo Rudy tra le mani.
Il ragazzo spalancò gli occhi, totalmente impanicato: «Perché lo tieni in braccio?! Quel coso di attaccherà!».
Esme strinse le labbra in una linea, come se si stesse trattenendo dal ridere: «Carlos, tu non hai mai incontrato un cane prima d'ora, vero?» chiese, inclinando la testa da un lato.
Ovvio che no! — avrebbe voluto rispondere — Altrimenti sarei già morto tempo fa! Tuttavia, si limitò ad un semplice: «No».
La ragazza davanti a lui rise, prendendo tra le dita una zampa dell'animale e scuotendola, come se stesse salutando. Il figlio di Crudelia di strinse ancora di più al tronco, terrorizzato. Nonostante ciò, si iniziò a domandare come mai la bestiaccia non avesse ancora attaccato Esme.
«Allora credo sia d'obbligo fare delle presentazioni: Rudy . . . » disse la principessa, guardando il cane con un sorriso, per poi indicare il Cattivo con un cenno del capo. « . . . lui è Carlos».
Il muso della bestiaccia scattò verso quest'ultimo, che strinse i denti impaurito. Però l'animale non fece niente: non attaccò e non ringhiò; si limitò a fissarlo, gli occhioni grandi, spalancati, e pieni di una curiosità e di un'intelligenza che il figlio di Crudelia non avrebbe mai associato ad una bestia del genere.
«Carlos . . . » continuò la figlia di Esmeralda, guardando il ragazzo con un'espressione dolce. « . . . lui è Rudy, la nostra mascotte».
Carlos osservò di rimando il piccolo cane che la principessa teneva tra le braccia. Non era enorme come si era aspettato, né aveva la bava che gli usciva dalla bocca o degli artigli e delle zanne così affilati. Il pelo marroncino sembrava pulito e soffice, e non selvaggio e crespo come gli aveva detto sua madre. Era . . . era esattamente l'opposto di qualsiasi cosa si era immaginato.
«A—A vederlo non sembra un animale cattivo e rabbioso . . . » mormorò, mentre, senza accorgersene, si staccava sempre di più dal tronco. «M—Mia madre forse . . . forse si sbagliava su di te».
Ignorò lo sguardo confuso di Esme, scendendo dall'albero e avvicinandosi all'animale.
Prese un respiro profondo e tese le mani verso Rudy, le cui orecchie si alzarono di scatto. Carlos esitò.
«Non devi preoccuparti» lo rassicurò Esme dolcemente. »È solo il suo modo di percepire quello che lo circonda».
Costringendosi a rilassarsi, allungò una mano sulla testa del cane, il quale non perse tempo a sporgersi e a posarla di sua iniziativa.
Il figlio di Crudelia serrò le palpebre, ora più che mai terrorizzato che l'animale potesse aggredirlo. Ma non lo fece. Anzi, iniziò a leccargli affettuosamente la mano, e . . . e Carlos sorrise.
Si fece coraggio, prendendolo in braccio. Ancora una volta, Rudy non attaccò e non si lamentò. Il ragazzo rise.
«Sei . . . sei buono, non è vero? Sì . . . sei buono . . . ».
Lo strinse ancora più vicino a sé, mentre il cane si girava tra le sue braccia e gli lasciava una piccola leccatina su una guancia.
Il Cattivo guardò Esme con un sorriso accecante, ma si spense notando l'espressione compassionevole sul suo volto.
«Cosa?» domandò.
«La vita dev'essere stata dura sull'isola» constatò la ragazza, non staccando i suoi occhi scuri da lui. «È stata tua madre, vero? A dirti che i cani sono pericolosi».
Fu come se un peso gli fosse stato tolto dal petto. Finalmente poteva parlare ad Esme di questo — di sua madre, della sua vita, delle sue paure — senza che fosse giudicato. Aveva iniziato lei la conversazione, no?
«Già . . .» confermò Carlos. «Lei è un'esperta. O almeno lo credevo. Mi aveva sempre detto che i cani sono degli animali orribili, rabbiosi, assetati di sangue, che ti saltano alla gola e ti uccidono se non ti comporti bene».
Entrambi risero quando Rudy leccò nuovamente la guancia del ragazzo. «Oh, aveva decisamente torto!».
Entrambi caddero in un profondo silenzio, ma non uno di quelli imbarazzanti o carichi di tensione: questo era leggero, confortevole, come una calda coperta che ti cala addosso e ti rilassa.
Rimasero così per alcuni minuti, a ridere guardando Rudy che abbaiava e correva avanti e indietro tra gli alberi.
Il figlio di Crudelia non ricordava l'ultima volta in cui si era sentito così a suo agio. Tranquillo, sorridente, e soprattutto se stesso.
Ogni tanto lanciava uno sguardo alla ragazza seduta al suo fianco, molto spesso quando lei lo stava già guardando, così da farle distogliere lo sguardo imbarazzata.
Era questo ciò che gli mancava sull'isola. Un momento di calma; un momento nel quale non dovevi tenere i sensi all'erta, non dovevi preoccuparti dell'opinione degli altri, o dove non dovevi starti a controllare le tasche ogni secondo. Un momento di pura calma.
«È sempre così ad Auradon?» si sorprese a chiedere, attirando l'attenzione della figlia di Esmeralda accanto a lui. «Nel senso . . . le vostre giornate sono sempre così perfette? O serene, o tranquille?».
La scintilla che passò negli occhi della ragazza era diversa da qualunque altra avesse mai visto in quelle iridi di carbone. Sembrava . . . sembrava quasi malinconica.
«Dovrebbero» rispose e, per qualche motivo a Carlos sconosciuto, non riuscì a mantenere il contatto visivo con lui, abbassando lo sguardo. «Per la maggior parte delle persone lo sono. Prendi Chad, ad esempio: zero preoccupazioni, zero compiti, zero stress. Ha servito tutto su un piatto d'argento».
Il figlio di Crudelia non voleva suonare scortese, ma non riuscì comunque a trattenersi dal domandare: «Perché, tu no?».
Il volto della principessa scattò verso l'alto in un nanosecondo.
A Carlos passò un brivido lungo la schiena. L'intensità nello sguardo della ragazza era . . . troppa. Percepiva il peso di quegli occhi neri nei suoi; li poteva sentir emanare emozioni; vedeva l'inchiostro che caratterizzava quelle iridi espandersi in una macchia inesorabile, mentre cercavano di inghiottire anche lui nel loro oblio. Due portali privi di ogni colore che, però, contenevano la luce più brillante di tutte.
La sua espressione diceva tutto e niente. E nonostante questo, il Cattivo fu sorpreso di udire la principessa ridere. Ma era una risata senz'allegria.
«Wow . . . non pensavo avessi effettivamente delle palle lì sotto, De Mon» disse, cosa che fece avvampare il diretto interessato. «Comunque, per rispondere alla tua domanda: no. Non ho avuto tutto già pronto come i miei amici, e vuoi sapere perché?».
Carlos venne per un secondo destabilizzato dalla sicurezza nella voce della ragazza, ma annuì cauto.
Esme sorrise tristemente: «Perché io non sono nata principessa. Non sono come Audrey, o Lonnie, o Chad, o chiunque altro all'Auradon Prep. Perché credi che Richard sia il mio migliore amico? Io questo titolo l'ho guadagnato a furia di fatica e sudore. Per . . . per tutta la mia vita il mio unico obiettivo è stato diventare la principessa perfetta, colei che tutti amano, rispettano e ammirano. Mia madre potrà essere pure l'ambasciatrice del regno, ma non hai idea di quanti problemi questa occupazione abbia portato a lei e a me». Prese un respiro profondo, e Carlos non osò dire niente, per permetterle di continuare: «Devi essere sempre impeccabile; ogni cavolo di città e zona di Auradon ha i suoi costumi e le sue tradizioni, quindi devi impararle tutte, poiché basta solo un errore per mandare all'aria una trattazione durata mesi».
«Ma questo è il lavoro di tua madre. Cosa c'entra con te?» chiese, con genuina curiosità, il figlio di Crudelia.
«Aspettative» rispose, senza pensarci due volte, Esme. «Quando sei la figlia dell'ambasciatrice di un regno, semplicemente non puoi non apparire perfetta. Anche il più piccolo dettaglio fuori posto, il più minimo accenno di maleducazione, possono fare la differenza nella firma di un contratto. Io ho girato Auradon, Carlos. Ho viaggiato molto, e credimi se ti dico che esistono anche in questo apparente "mondo magico" migliaia di persone cattive, che cercano in tutti i modi di distruggere la figura che ti sei creata con tanta attenzione, solo per il gusto di farlo; di vederti soffrire, e poi di vederti fallire» sospirò, per poi mormorare: «E anche per la mia parentela . . . ».
Carlos, che aveva sentito chiaramente le parole della principessa, ancora una volta non riuscì a trattenersi: «Parentela? Quale parentela?».
La figlia di Esmeralda si irrigidì, la schiena diritta e gli occhi improvvisamente spenti: il suo solito meccanismo di difesa nei momenti di debolezza.
«Non— Non sono affari tuoi» disse tra i denti, mentre evitava lo sguardo color caffè del ragazzo.
Proprio quest ultimo le rivolse un'occhiata dura ma al tempo stesso dolce come il cioccolato: «Capisco che tu non voglia parlarne, credimi lo so . . . ma non pensi che per liberarti di questo peso tu debba parlarne con qualcuno». Esme lo guardò di sfuggita, mentre si mordeva una guancia in ansia.
«E poi, ehi!» esclamò il Cattivo. «Stai parlando col figlio della sola e unica Crudelia De Mon! Credi davvero che io possa giudicarti?».
La ragazza non rispose.
Carlos sbuffò: «Va bene. Certo che sei una testa dura . .¿. Facciamo così! Io ti racconto qualcosa dell'isola, di mia madre e della mia scuola, e se alla fine del racconto riuscirò a sorprenderti, toccherà a te!».
Esme lo fissò per alcuni secondi, come idencisa se accettare o meno. Carlos immaginò le rotelle della sua testa girare come matte: "E se fosse una trappola?", "E se mi stesse ingannando?". Era sicuro al cento per cento che queste domande le volassero in mente.
Poi, però, annuì, avvicinandosi ancora di più a lui: «Ok, sentiamo».
Il Cattivo ghignò, nonostante non fosse per niente sicuro di quello che stava per dire.
Partì dalla Dragon Hall, descrivendo minuziosamente i vari ambienti e le varie materie della scuola. Le disse della loro mascotte, Lucifero, il gatto malvagio e grasso che un tempo aveva dato del filo da torcere ai topini di Cenerentola.
Ogni tanto il suo discorso veniva interrotto da Rudy che tornava indietro a chiedere una coccola, cosa che nessuno dei due gli negava.
Le raccontò della sua aiutante malvagia, Balzebuffa, una gattina che era saltata fuori da una delle cucciolate di Lucifero. A questo, Esme alzò un lato della bocca.
«Peccato che mia madre l'abbia uccisa pochi mesi fa» disse Carlos, afflosciando le spalle. «Il giorno dopo aveva al collo una sciarpa nuova di zecca».
La principessa rimase senza parole, e Carlos la vide stringere le labbra, come se stesse cercando di non vomitare.
Lui annuì: «Lo so, quando l'ho scoperto non ho fatto che piangere per una settimana. E diciamo solo che mia madre non era molto contenta di questo». Senza accorgersene si toccò un punto del collo dove Crudelia lo aveva colpito con un pezzo di vetro. Ma decise di non specificarlo. «Evie, Jay e Mal lo possono confermare. In quei giorni hanno fatto di tutto per sollevarmi il morale. Non so quante volte abbiamo fatto una scappatina notturna extra. L'isola non aveva mai avuto più graffiti» rise, ripensando a quelle serate. In un certo senso gli mancavano: la sensazione di libertà e sicurezza che provava, come se fosse il padrone del mondo.
Esme accennò una risatina: «Non sapevo ti piacessero i graffiti . . . o che, ecco, sapessi disegnare».
Il ragazzo scosse la testa, sorridendo: «È Mal l'artista. Noi cerchiamo solo di adeguarci».
«E qual'era la tua routine? Come passavi il tempo quando, ehm, non r—rubavi o, sai, disegnavi sui muri?».
Carlos trovò adorabile la sua curiosità, e non perse tempo a colmarla.
Le disse della sua casa sull'albero, il suo laboratorio, dove creava le sue invenzioni: il Metti-A-Posto, che aveva realizzato per pulire casa sua più velocemente; la soluzione per rendere visibile l'inchiostro invisibile; e, infine, la piccola scatola nera con cui era riuscito a fare un buco nella cupola.
«Cosa?!» esclamò Esme, a bocca e occhi spalancati. «Sei riuscito a fare un buco nella cupola?! Quella stessa cupola creata dalla Fata Smemorina con la bacchetta più potente dell'universo?!».
Il figlio di Crudelia rise, annuendo. Non si era aspettato di trovare questa conversazione divertente, eppure lo era. Era esilarante osservare le reazioni di Esme riguardanti l'isola, o più semplicemente le sue invenzioni. Si sentiva quasi lusingato.
E la principessa continuò a fare domande su domande, facendo facce sempre più strane ad ogni informazione nuova: il cibo scadente che Carlos e gli altri Cattivi erano costretti a mangiare; la dittatura che aveva istituito Malefica; come la gang di Mal (di cui lui faceva parte) fosse la più temuta sull'isola.
Oh, sì. Carlos si stava decisamente divertendo.
Dopo l'ennesima informazione, la gola del ragazzo iniziò a chiedere pietà.
«Ok, ok. Ora basta parlare di me» ridacchiò. «Mi avevi promesso di—».
«Lo so» disse secca la principessa, non riuscendo comunque a nascondere un sorriso.
Vedendo l'indecisione sul suo volto, il figlio di Crudelia le si avvicinò, posando la sua mano su quella piccola e delicata di lei, stringendola leggermente.
Ci sono io — avrebbe voluto dire — Non devi avere paura di niente.
Osservò di nuovo le iridi della ragazza, inondate dalla titubanza e dal terrore. Stava per incoraggiarla ancora una volta, quando vide la sua bocca aprirsi, e sentì un sussurro uscire tremante.
«I—Io . . . ». La voce le si spezzò, mentre un singhiozzo le scappò dalla gola. «M—Mia madre . . . mia madre è— è stata—». Un altro singhiozzo. Sta volta la principessa digrignò i denti.
«Ehi, ehi! Se non riesci, non fa nient—».
«Mia madre è stata violentata!» sputò.
Insieme a Carlos, sembrò congelarsi anche la foresta.
Improvvisamente gli uccellini non cantavano più, il vento si era placato e le foglie erano tutte ferme. Persino Rudy si era ammutolito.
«C—Cosa . . ?». Il figlio di Crudelia non riconobbe la sua stessa voce, tanto era bassa.
Esme tirò su col naso. Era tornata ad evitare il suo sguardo.
«Non . . . non so quando sia successo . . . ». Questa era una chiara bugia, ma Carlos preferì non pressarla più di quanto non avesse già fatto. «Mia madre me lo disse ai miei undic'anni. Avevo appena iniziato la prima media e stavo cercando di ambientarmi. Non conoscevo nessuno, e la maggior parte erano tutti principi e principesse. Io, invece . . . ero solo una ragazzina che veniva da Notre Dame, a cui piaceva vestirsi casual, con i jeans e le felpe viola» dalle sue labbra uscì quella che sembrava una risata, ma era sommersa dalle lacrime. «A quella bambina piaceva sporcarsi, correre, saltare, fare scherzi. In mezzo a tutte quelle persone, tutte cresciute in un castello, tra sfarzo e buone maniere, era praticamente impossibile fare amicizia. E quando mia madre mi disse questo . . . ». Si fermò un attimo, chiudendo gli occhi e prendendo un respiro profondo.
Quando li riaprì, li spostò verso Carlos, che non si era permesso di aprire bocca: aveva paura di spaventarla, per poi farla chiudere di nuovo. Quella che stava parlando era la Esme fragile, rara, che aveva visto solo poche volte, ed entrambe erano finite con lei addormentata. Non avrebbe rovinato tutto un'altra volta.
«Carlos». Il modo in cui pronunciò il suo nome, disperato e quasi come una preghiera, lo fece scattare, e non perse tempo ad allacciare le sue braccia intorno a lei.
Era il primo abbraccio che si scambiavano, e non avrebbe mai immaginato sarebbe stato in una situazione del genere.
«Carlos, io sono il frutto di uno stupro. Sai cosa vuol dire? Che sono un errore. U—Una malattia. Qualcosa che non sarebbe dovuto esistere. Mia madre non mi aveva programmato, non- non voleva una figlia. O almeno, non in quel momento. N—Non così. I—Io—».
«Shhh» la fermò Carlos. «Ora basta. Ho capito. Hai detto anche troppo, e non sai quanto mi dispiace non averlo saputo prima. Non— Non avrei fatto molte cose».
La sua mente tornò alle parole che Richard gli aveva detto una settimana prima: "Esme ha passato delle cose che il tuo stupido cervellino non può neanche immaginare. Non ti lascierò rovinare la vita perfetta che si è creata".
Ora tutto aveva senso. Odiava ammetterlo, ma il figlio dei Radcliffe aveva ragione. Esme non poteva mandare all'aria l'immagine che si era creata. Per quanto a Carlos non piacesse l'idea della ragazza perfettina, zuccherosa e sempre educata, avrebbe affrontato anche questo pur di vederla felice.
Se questo era davvero l'unico modo per farla stare bene, allora ci avrebbe provato. Avrebbe provato lui a cambiare per lei. Non importavano le parole di sua madre o dei suoi amici.
Auradon poteva anche essere noioso e smielato, ma aveva Esme. E per adesso gli bastava.
—— angolo autrice!
Allora... come state?
Non so cosa dire dopo questo capitolo. Ho pianto mentre lo scrivevo, ho detto tutto. Aspettavo di sganciare questa bomba da quando ho iniziato a scrivere questa storia. E vi dico solo che non è l'unico "colpo di scena" che ci sarà.
Comunque... che ne pensate? Ve lo aspettavate? Come l'avete presa? Spero solo che questo vi abbia aiutato a vedere Esme e le sue azioni da una luce diversa.
Ma passiamo alla domanda del giorno: top 3 delle canzoni di Descendants 2?
La mia è questa:
1. Ways to be Wicked
2. Chillin' like a Villan
3. You and Me
Be'... che dire, ci vediamo al prossimo capitolo!
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