1.14 *riconsiderando le decisioni di vita*










CHAPTER FOURTEEN

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«COME SEI ANDATO nei test?»

La sala da pranzo è fredda e ben illuminata.

Il lampadario brilla dal soffitto. Luce fredda che inonda i mobili, i quadri, il lungo tavolo in mogano.

Tutto in questa stanza è lussuoso. La sedia su cui Jude siede. Il suo cibo. Le sue posate.

Noioso.

Tutto, tutto questo. Così terribilmente noioso.

Alcuni giorni, Jude pensa che morirà per questo.

Per la noia.

Ci annegherà dentro. Ci si strozzerà. Soffocherà.

Gli fa tremare le mani. Rende taglienti le sue parole e più taglienti i suoi pensieri. I suoi gesti ordini impazienti.

Jude non è una persona molto simpatica.

Non ha rimorsi al riguardo.

«In matematica e inglese ho preso il massimo, cento» è piatto. Vuoto. La domanda sta a malapena attirando la sua attenzione.

«E in letteratura?» suo padre spinge.

È solo dall'altra parte del tavolo, ma per qualche ragione sembra distante anni luce.

Il signor Sharp è un uomo grande. Carismatico.

Alto e massiccio e ingrigito dall'età, occhi che si increspano agli angoli dopo anni di sorrisi. E' un leader molto amato. Leale verso i suoi amici. Rispettato.

Jude lo guarda e non pensa che riuscirà mai a essere così.

«Non benissimo, novantasette»

Vede suo padre irrigidirsi all'affermazione, la delusione che lampeggia brevemente nel suo sguardo.

Jude non sussulta. Non offre scuse. Sarebbe inutile in ogni caso.

Nonostante quello che suo padre può pensare, Jude Sharp non ama commettere errori.

Non desidera essere niente di meno che perfetto.

Dopo una lunga pausa, il signor Sharp sospira: «Il futuro leader di una grande azienda deve puntare sempre al massimo, non credi anche tu?»

Lo dice dolcemente, come se non fosse nemmeno un rimprovero, e Jude ha questo ricordo che non è sicuro che sia reale, di quando era appena arrivato e fissava i cocci rotti di qualcosa che era andato in pezzi.

Un vaso. Forse un trofeo. Qualcosa che gli avevano detto di non toccare ma lui era riuscito a far cadere lo stesso.

La signora Collins aveva aggrottato le sopracciglia davanti a quel disastro e aveva detto, non senza un briciolo di segreta soddisfazione: "Quando torna, vedrai che per questo il signor Sharp ti manderà via."

Jude l'aveva odiata, allora.

L'aveva odiata più di quanto non avesse mai odiato chiunque altro nella sua piccola vita da bambino di sei anni.

Eppure, avvolte gli capiterà ancora di pensarci.

Sentirà quelle parole sussurrate nell'orecchio, viscide, dense, e si chiederà ancora cos'abbia fatto per essere ancora qui.

«Sì, certo» dice alla fine, lentamente, non sapendo cos'altro fare. Non quando suo padre lo fissa in quel modo. Come se si aspettasse il mondo da lui.

Suo padre sembra abbastanza soddisfatto dalla risposta da riprendere la sua cena. Gli occhi di Jude che si concentravano su piccoli dettagli del pavimento, del muro e dei vestiti.

«Ascolta papà,» dice, prima di riuscire a fermarsi «Prometto che manterrò fede agli impegni nei confronti della famiglia, ma soltanto una volta che sarò riuscito a vincere il trofeo Football Frontier per tre stagioni consecutive.»

Suo padre non batte ciglio. Non alza nemmeno lo sguardo dalle sue fette precise. Uno scuotimento della testa. Come se avesse sbagliato qualcosa, in qualche modo, senza nemmeno saperlo.

«So a cosa ti riferisci, stai pensando alla tua sorellina Celia»

Il cuore di Jude crolla ma lui non reagisce.

Celia è un argomento delicato per lui. Un campo minato nel suo petto. Il suo nome lo tira come un richiamo.

Si chiede cosa direbbe vedendolo.

Rendendosi conto che è diventato tutto ciò che odia.

Suo padre sorride, «Puoi stare tranquillo, manterrò la mia promessa. Ti garantisco che vincerai il torneo scolastico per tre anni di fila.»

La sua voce emana un calore che Jude sente pesante addosso. Come un cappotto di lana bagnato.

«A patto che tu lasci fare al signor Dark, naturalmente.»

C'è un breve momento. Come c'è sempre. Un grido lontano. Una voce soffocata. Qualcosa che si sente come un ombra al buio. Inquietante, che ti volti e non è più lì.

Ma come sempre. Il momento passa.

E Jude annuisce.

Perché vedete, obbedire agli ordini?

Questo è davvero tutto quello che Jude Sharp sa fare.






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«SIAMO IN FINALE, GENTE!» Mark grida, mentre siede di fronte a Axel su una delle panchine da picnic di fronte alla loro scuola.

«Puoi scommetterci il culo che lo siamo!» scoppia Kevin, mentre Steve si allunga per dargli il cinque. La maggior parte dei ragazzi sono qui, reduci da una settimana di interrogazioni. Sulla vetta del mondo come i campioni.

Axel alza appena lo sguardo dal suo libro di testo, «Non potete davvero dirlo tutti i giorni.»

«È una scommessa?» riesce praticamente a sentire il sorriso nella sua voce mentre Nicky si siede al suo fianco.

«Assolutamente no», taglia corto Axel.

Nicky alza gli occhi al cielo, sbuffando una risata.

«Buongiorno Wrust!,» dice, in tono odioso. «Vedo che sei di ottimo umore come sempre oggi.»

Alza gli occhi al cielo. «Buongiorno, Nicks.»

«Che stai facendo?» chiede Mark, prima che Axel possa tornare indietro, battendo le dita contro il tavolo.

«Studio per il test»

Mark continua a guardare, gli occhi grandi, come se non riuscisse a ricollegare.

«Inglese, Mark»

«Certo»

«Mark» Axel insiste, più lentamente sta volta «È oggi»

«Cosa?» Mark, sbotta sgomentato «Io non ne sapevo niente! Perché non ne sapevo niente?»

«Lo sapevano da due settimane»

«Oh. Oh no» Mark si lamenta, gettando la testa all'indietro «Mia madre mi ucciderà»

«Aw non preoccuparti, Markie» mormora Nicky, appoggiandosi pesantemente allo schienale «A che serve la tua capo tifoseria preferita se non può passarti qualche risposta?»

«Lo faresti?» Mark sussulta, la faccia che si apre in un grande sorriso dei suoi. Tutto il viso che si illumina in un modo che fa scuotere la testa a Nathan.

Axel socchiude ulteriormente gli occhi, «Nicky»

«Aw, abbi pietà, Wrust.» lei gli dice, indicandolo con un gesto vago delle dita «Guardalo, è patetico»

«Grazie!» cinguetta Mark, suonando ingiustamente contento.

Nicky alza le sopracciglia, «Visto?»

Axel emette un piccolo sospiro di protesta, ma o non se la sente di ribattere o non sa come fare, quindi invece tace. Cosa che ovviamente fa solo insospettire Nicole.

«Chi gli ha sputato nella colazione?» chiede, in un sibilo che sicuramente lei ritiene essere molto discreto, praticamente piegandosi con tutto il busto sul tavolo per sporgersi verso Kevin.

«Il principino è nervoso perché è finito in punizione»

«Tu cosa?» Mark e Nicky sbottano, praticamente nello stesso momento.

Axel si volta verso Kevin e sembra fare del suo meglio per non ucciderlo.

«Ti avevo detto di non dirlo!»

«Onestamente, amico» Steve manda giù un boccone del suo pranzo, accennando distrattamente al cortile «Lo sa già tutta la scuola»

Lui lo guarda male ma Steve lo ignora, voltandosi di nuovo verso Nicky «Dicono che all'ora di chimica lui e la Dave hanno fatto saltare in aria qualcosa. Tipo—booom»

«Io non—» Axel sospira, passandosi una mano sul viso. «Non è quello che è successo»

«Il professore non ha fatto evacuare la classe?»

«Sai cosa? Non importa» Axel su tira nervosamente il colletto e poi, suonando stanco: «Ho la punizione questo pomeriggio. Il signor Raimon vuole che riordiniamo alcuni fascicoli nell'archivio»

«Ti perderai l'allenamento!»

«Ti perderai il film!»

Sia Mark che Nicky lo guardano indignati.

Axel ha tolto le stampelle ieri e stanno organizzando la serata cinema a casa Swift da settimane, da quando il padre di Nicole le ha spedito via posta il DVD in esclusiva di IronMan, fresco di sala.

Sospira mentre si pizzica il ponte del naso, sentendo arrivare l'inizio di un mal di testa. «Mi dispiace»

«Ma le finali sono fra due settimane!» continua Mark, suonando disperato «Sì può sapere com'è successo?»

«Non risparmiarci nessun dettaglio.»

«Nicole»

«Che c'è?» lei chiede, con le braccia lanciate indignate in aria «Sto cercando di aiutare!»

Come se fosse stato il momento giusto, la campanella suona, facendo sì che gli studenti bighellonanti in piedi sul prato inizino a vagare verso le porte.

Axel lascia andare un istantaneo sospiro di sollievo — grazie al cielo —, tirandosi su.

«Ci vediamo dopo» dice, parole frettolose mentre raccoglie le sue cose dal tavolo.

Kevin ghigna, «Scappi Blaze?»

Steve e Toad iniziano entrambi a ridere.

«Ritirata strategica» borbotta Axel, stringendo leggermente la spalla di Nicky con la mano «Nicks io—»

Lei quasi ride, mentre gli lancia un sorriso rassicurante, «Tranquillo, mi limiterò a ricattarti a vita.» e poi, guardando i ragazzi oltre la spalla, «Voi ci siete tutti sta sera, vero? Bobby?»

«Io—» lui sbatte le palpebre, leggermente disorientato.
«Non credo di poter...»

«Ti preeeeeeego» lei praticamente implora, gli occhi grandi da cucciolo. «Ti prego ti prego ti prego ti pregooo»

«Andiamo, Bobby, dì di si prima che si metta a piangere» Mark chiama, facendo scontrare le loro spalle. Sta sorridendo.

Nicky lo colpisce – cercando di dargli una manata sulla nuca – ma Mark rotola via, spostandosi con un'aria fin troppo compiaciuta di se stesso.

Bobby sbuffa in una risata sommessa, arrendendosi, e Nicky lancia in aria entrambe le braccia: «Vittoria!» esulta, suonando sinceramente eccitato. «Cucineremo ciambelle, dormiremo nei sacchi a pelo e faremo mattina: sarà così divertente!»

Nathan sospira, strofinandosi il viso. «Non avevi un test da fallire o cose del genere?»

Gli occhi di Nicky si spalancano, apparentemente in qualche modo gli era sfuggito «È vero!» strilla, scavalcando lo schienale e saltando giù, afferrando brutalmente il braccio di Mark. «Andiamo, capitano!»

Lui gira verso di lei, con gli occhi spalancati per il tradimento, «Dobbiamo proprio?» chiede teso.

Nicky lancia in aria il braccio libero. «Diavolo, sì, dobbiamo!» e poi, proprio quando loro pensa che il peggio sia passato, alza la testa verso il cielo e grida: «SIAMO IN FINALE, GENTE!»

I ragazzi ridono, il rumore che li segue mentre entrano nell'edificio.





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Nicole Swift ama i suoi amici.

Non pensa che sia nemmeno salutare quanto.

Il suo amore non le entra nel petto.

Sempre troppo caldo, troppo grande e troppo, troppo troppo.

Le sfonderà la cassa toracica uno di questi giorni.

Romperà le ossa. Sradicherà gli alberi. Riempirà di sale il terreno e impedirà a nuove piante di crescere.

Non è dolce o romantico o tenero.

E' più una malattia. Qualcosa di sporco e soffocante che cresce dentro di lei come la muffa.

Perché il fatto è che Nicole Swift non sta molto bene quand'è da sola.

Ha bisogno delle persone. Sentendosi al suo meglio quando è in mezzo a loro. Quando li fa ridere, quando fa loro un favore, quando si prende cura di loro.

Sentendo il bisogno costante di essere necessaria. Per un'ora, o un minuto, o un secondo.

Solo per essere certa di star continuando a respirare.


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Mentre si dirige verso la sua classe, il telefono di Bobby vibra di nuovo e questa volta non riesce a trattenersi dal guardare.

E' Jude.

Ancora una volta, lo ignora.

Bobby non...sta rispondendo ai messaggi.

Il che.

Bene.

Potrebbe essere un problema.

Finirà nei guai per questo. Se non c'è già finito il giorno prima, o quello prima ancora, o una settimana fa.

Immagina che finché potrà continuare si limiterà a evitare il problema.

Rimandare. Procrastinare come compiti che non ha voglia di fare - mi scusi, signorino Jude, non ho avuto tempo di mandarle i dati in questa settimana, è morta mia nonna.

Distrattamente, si chiede se funzionerebbe.

Il capitano della Royal Academy non è esattamente famoso per la sua grande pazienza, ma poi, Bobby non è neanche famoso per disubbidire agli ordini, quindi immagina potrebbe davvero esserci una prima volta per tutto.

Imboccando la strada più lunga, pensa a cosa direbbero i suoi genitori — i suoi genitori che parlano del suo ingresso alla Royal come se fosse un grande orgoglio, come se essere capace di mandare un fax rendesse Bobby una specie di supereroe — vedendolo ora.

Un quindicenne che sta gettando al vento la sua vita.

Dubita che capirebbero. Ma poi, raramente lo fanno.

Sono stati gentili con lui, dopo Erik. Facendo il tifo alle sue partite anche se del calcio non conoscevano neanche le regole, tappezzando i muri di bandiere colorate quando ha fatto coming out. Ore di macchina per accompagnarlo agli allenamenti.

Prendendo quel sacchetto di ossa, cicatrici fresche e rabbia repressa che era e tenendolo al sicuro.

Bobby dubita che si siano accorti che non è più quel ragazzino, e non ha il cuore di dirglielo, anche se non chiede loro di venire alle sue partite da un po'.

«Dannazione»

Il sibilo che rimbomba da uno dei garage porta i suoi passi a balbettare fino a fermarsi.

Non si era nemmeno accorto di essere arrivato fino a qui, dove gli autisti della scuola tengono gli autobus. Una delle persiane è aperta, ma non troppo. Come se qualcosa o qualcuno ci fosse strisciato dentro.

E vuole quasi girarsi e camminare dall'altra parte. Perché sa che aspetto ha. Sa che questa è un'altra di quelle cose di cui non dovrebbe impicciarsi.

Eppure.

«Professore»

Bobby può sentire il respiro lasciare il corpo di Wintersea tutto in una volta, i suoi occhi che lo trovano mentre sguscia fuori dal retro di uno dei bus.

Ricordano, in modo sconcertante, quelli di un coniglio. Un animale preda, catturato in una trappola.

Le maniche della giacca di tweed tirate sui gomiti e due secchi dietro la schiena che tintinnano l'uno contro l'altro.

Qualcosa si contorce nello stomaco di Bobby quando lo vede sorridere.

«Ah sei tu,» l'uomo sbuffa una risata, suona teso ma meno di prima, come se si stesse sforzando di rilassarsi. Rendendosi conto di non avere davanti una minaccia. «Non ti avevo sentito arrivare, mi hai fatto prendere un colpo»

Gli occhi di Bobby si chiudono. «Che cosa stava facendo?»

«Uh, niente che ti riguardi.» uno sguardo disgustoso si incide nella bocca di Wintersea e la rabbia brucia nella parte posteriore della gola di Bobby come se avesse bevuto.

«Comunque, accetta un consiglio dal tuo vecchio professore.» Wintersea lo guarda sopra i suoi occhiali a mezzaluna. Eroga un colpo mortale. «È meglio se eviti di salire su
quell'autobus»








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Il telefono squilla.

Jude Sharp lo sta chiamando.

E Bobby non vuole.

Non vuole.

Non vuole.

Ma preme il tasto verde e risponde lo stesso.





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«Sai», dice Nelly, sbirciando oltre la spalla di Axel per leggere i suoi appunti, «Avete entrambi catalogato le stesse cose negli ultimi venti minuti».

La testa di Myriam scatta e Axel lampeggia, sporgendosi in avanti, cercando di leggere gli scarabocchi sul foglio di Myriam fa lo stesso, stringendo gli occhi al libro nelle mani di Axel.

«L'ho già fatto», dice Myriam, accusatoria, «Era nel mucchio finito».

Axel si irrita ancora di più, «No, non lo era! Questa è la pila finita».

«No, quella è la pila finita!»

«Oh, per l'amor del cielo», dice Nelly, scuotendo la testa, «Non vi siete divisi il lavoro?»

Myriam tace e Axel distoglie lo sguardo, accigliato come un bambino castigato, e Nelly geme.

«Ok, è ridicolo. Dovreste lavorare insieme. Per lo meno, dovreste assicurarvi di non ripetere ciò che l'altro ha già fatto. Non abbiamo tempo per questo!»

Axel fissa il libro che ha in grembo, con il viso che brucia.

«Guarda», sbuffa Nelly, con le mani sui fianchi, «Non mi importa se voi due non vi piacete, questo è solo infantile, ed è una ragione stupida per far perdere a entrambi l'allenamento. Se da ora in poi non collaborerete, farò in modo che restiate bloccati quaggiù insieme per il prossimo mese!».

«No» sbottano entrambi, bruscamente. Nelly annuisce, esasperatamente compiaciuta.

«Tornerò a controllarti tra un'ora», dice, «Dovreste aver finito per allora. Lo dico per te, Axel»

Con ciò, esce dalla stanza, i lunghi capelli ramati che le svolazzano lungo le spalle come i serpenti demoniaci della dannata medusa.

Dall'altra parte del tavolino, Myriam guarda Axel con diffidenza.

«Lo dico per te, Axel» cinguetta, dopo un momento. Axel chiude gli occhi.

«Ti prego, sta zitta»

Myriam alza gli occhi al cielo, sibilando indietro: «Lo sai, niente di tutto questo sarebbe successo se qualcuno non avesse surriscaldato-»

«Oh, ora sarebbe colpa mia?»

«Be' forse ti è sfuggito, Miser Focoso, ma a differenza tua io non posso farmi uscire il fuoco dal culo»

Axel arrossisce, la frustrazione era ancora un tizzone ardente nel suo stomaco. «Non sarebbe successo niente se tu non avessi iniziato a comportarti come una bambina!»

«Strano, pensavo che quella fosse una tua specialità», risponde Myriam con tono beffardo. «Sai, se fossi in te vorrei che qualcuno mi togliesse il bastone enorme dal culo.»

«E se fossi in te, vorrei che qualcuno sostituisse la metà mancante del mio cervello in modo da poter effettivamente pensare a un insulto decente.»

Myriam sogghigna. «Oh, le mie più sincere scuse, ce ne sono così tante tra cui scegliere che è difficile restringere il campo ...»

Axel stringe i denti, tenendo gli occhi ben fissi sulla pila di libri davanti a sé.

«Bene», dice, dopo alcuni respiri profondi, «Bene, facciamolo e basta. Porta i tuoi appunti qui.»

Si riuniscono sullo stesso lato del tavolo, lasciando tanto spazio tra i loro corpi quanto il tavolo permetterà.

«Non riesco a leggere la tua calligrafia», sbuffa Axel, strizzando gli occhi verso i suoi scarabocchi.

«Be' non tutti abbiamo il dono di scrivere come una perfetta lady del 1700 » lei scatta, con voce venata di sdegno.

«Se intendi in modo leggibile-»

«Sai, potresti avere un futuro negli inviti di nozze.»

«Potresti avere un futuro nella scuola primaria.»

«Creativo, Blaze.»

Axel sbuffa, scuotendo la testa. «Sei impossibile.» dice, afferrando la prima decina di libri dalla pila «Prendi quella metà.» ordina, indicando con il mento ciò che resta. Myriam brontola in risposta.

«Fretta di andare da qualche parte?»

«In effetti, sì.» sbuffa Axel, picchiettando le dita contro il ginocchio e Myriam sbuffa e deve premersi una mano sulla bocca per trattenersi dal ridere.

«Che cosa?» chiede Axel, sulla difensiva; ovviamente non aveva intenzione di essere divertente. E ancora...

«Non mi dire che hai un'appuntamento»

Axel sbatte le palpebre, arrossendo. Non è sicuro di cosa si aspettasse, ma di certo non era quello.

«Devo trovarmi coi ragazzi» borbotta, iniziando a spulciare le note, scrivendo titolo, autore e numero di scaffale del primo libro che gli viene in mano «E comunque non sono affari tuoi»

«Oh, naturalmente» Myriam ridacchia, scuotendo la testa prima di iniziare a recuperare i codici a barre.

Fa abbastanza freddo nei sotterranei, Axel lo sa. Ma si sente ancora come se fosse seduto accanto a una fiamma aperta.

«Allora,» dice Myriam, con disinvoltura, una volta che il mucchio si è notevolmente ristretto «Fammi vedere se ho capito bene: sei arrabbiato perché ti ho fatto perdere la serata con i tuoi amichetti, è questo?»

«Come se te ne importasse qualcosa»

«Aw, ti dispiacerebbe? Che cosa dolce.» lei fa le fusa, e Axel lascia andare un verso stizzito, tornando al suo lavoro.

«Sai», dice Myriam, a bassa voce, ordinando le note rimanenti, «So che le sfumature non sono davvero il tuo forte, Blaze, ma hai mai considerato che magari anche se sono così impossibile e infantile non sono una persona di merda? O questo pensiero ti torna comodo solo quando hai voglia di baciarmi, mh?»

Axel sobbalza, fissandola, finché lo shock è svanito e inizia a rendersi conto che, sì, questo sta realmente accadendo. «Pensavo non ne volessimo parlare»

Un sorriso lento e soddisfatto inizia a strisciare sul suo viso «Ma guarda, sei imbarazzato Blaze? Davvero? Cosa fai, darai fuoco anche ai libri ora? Non so quanto la Raimon sarà felice al riguardo, sai. Lo dico per te»

Oh, questo è geniale. Myriam non la lascerà mai e poi mai vivere tutto questo.

«E' una cosa che ti succede spesso, allora?»

«Non voglio parlarne» si acciglia, distogliendo lo sguardo.

«Voglio dire, è un po' ironico, non è vero? Non aiuta esattamente la tua aura da bel tenebroso freddo e misterioso e tutto il resto.»

«Ho detto che non voglio parlarne!"

«Dì, la Federazione non fa problemi al riguardo? Avere un piromane a piede libero per la scuola? Da piccolo andavi in giro con l'estintore nello zaino?»

«Non mi è mai dannatamente successo prima di quest'anno!» Axel scatta. Myriam sorride.

«Beh, dai, cos'era allora? L'ormone dell'adolescenza? La nuova scuola? Sei davvero appassionato di chimica? Perché se è così, odio romperlo a te, ma non penso che il prof abbia apprezzato»

«Sta zitta

«E'—»

«Ho detto che non sono affari tuoi!»

Il suo sorriso si allarga e lei esamina le unghie, con nonchalance. «Dorse non ti sei accorto, caro, ma in punizione con te non c'è Nelly o la tua adoratissima Nicole, ma io. Quindi sì, sono affari miei. E ti informo che stai catalogando due volte la stessa cosa.»

«Pensavamo che stessimo attaccando ai nostri lati

«Sì, pensavo che ci si potesse fidare di te per fare un lavoro decente.»

«Se non ti avessi con il fiato sul collo per tutto il tempo!»

«Sei così sensibile», sbuffa Myriam.

Axel spinge indietro la sedia da sotto di sé, il metallo che emette un forte stridore contro il pavimento di pietra mentre si alzava.

«Lo sai cosa penso?» Axel la guarda con ferocia, sentendosi frustrato, accaldato e due volte più arrabbiato di quanto lo fosse stato questa mattina, «Tutto quel parlare lo fai. Sono solo cazzate per nascondere il fatto che sei fottutamente debole, Dave. Che non hai la forza per reagire. Coi tuoi amici, con la tua famiglia, cazzo, con me, con Paul—»

«Vaffanculo» lei sibila, strappandosi via, ad Axel viene da ridere.

«Vuoi sapere cosa mi è successo?» va avanti, la voce schiacciata come la gravità «Perché continuo a perdere dannatamente il controllo? Tu. Tu mi sei successa. La più competitiva astiosa malfidata polemica persona che abbia mai incontrato!»

«Oh è così che—»

«No!» Axel scatta, la rabbia che ritorna a ondate «Tu dici che non sono meglio di te, Dave, ma la verità la sai qual'è? Io ho scelto i miei amici. Sono un calciatore professionista, una brava persona, e ho scelto di unirmi a quella squadra. E forse hai ragione, forse sono degli sfigati, forse io sono un'ipocrita, ma quand'è stata l'ultima volta che tu hai scelto qualcosa per te stessa senza preoccuparti di ciò che il resto del mondo pensa di te, eh?»

I suoi occhi erano scuri di pupilla, larghi, cauti e belli. E Axel vuole-deve andare via.

Ma non lo fa.

«Quando, Dave?»

I libri cadono mentre Myriam allunga la mano verso di lui, afferrandogli il colletto.

Nessuno dei due ha più voglia di litigare quando Nelly torna a prenderli.




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«Hai i dati che ti abbiamo chiesto?» dice Jude Sharp, senza preoccuparsi di cercare di nascondere l'assoluta mancanza di interesse per la sua voce.

Probabilmente potrebbe sputare in faccia a Shearer, ed lui non batterebbe ciglio lo stesso.

«Ho bisogno di un po' di tempo ancora» dice, e anche se non lo guarda Jude sa che sta tremando.

«Allora perché mi hai fatto venire?» è piatto. Vuoto. Enfatico. Dice quelle parole nello stesso modo in cui potresti dirle al tuo cane.

«E' solo che, mi stavo chiedendo—» Shearer comincia, troppo ansioso, raccimolando il suo coraggio come acqua nelle mani «Signorino Jude, non le sembra di esagerare? So che fareste di tutto per ottenere ciò che volete, ma arrivare persino a sabotare l'autobus della scuola?»

La fronte di Jude si alza «Di che cosa parli?»

C'è sollievo nella voce di Shearer e Jude lo odia. Odia essere colto di sorpresa in questo modo. Odia sentirsi lento e stupido. Odia che i suoi pensieri non la smettano di correre.

«Lo sapevo. Quindi neanche tu eri stato messo al corrente di questa faccenda.»

Per un lungo momento Jude si limita a fissarlo. Non è del tutto sicuro di aver capito le parole. Lo dice in modo così semplice, come se fosse ovvio, come se lui e Jude si fossero scambiati più di una manciata di parole negli ultimi due anni.

Come se lo conoscesse.

Shearer fa un passo avanti, le parole che infuriano da lui: «Adesso la Royal Academy ricorre anche a questi metodi? Il Capo sta davvero superando ogni limite, cosa gli passa per la testa?»

Jude non lo sa. C'è stato un tempo in cui credeva di farlo. In cui credeva di essere d'accordo con questo. Non ha mai avuto problemi con il sangue prima. O violenza. O crudeltà. O lo sporcarsi le mani per ottenere ciò che vuole.

Jude non è un ragazzo di grande sensibilità. La praticità governa la sua vita.

Eppure—

«Mi è sempre più difficile obbedire ai suoi ordini, non mi piacciono questi colpi bassi! Pretende cose assurde farebbe qualunque crudeltà pur di raggiungere i suoi obbiettivi»

«Adesso vedi di piantarla.» lui scatta, interrompendolo, mordendo la sua irritazione. Tutte le sue parole hanno i denti. «Noi non siamo autorizzati a discutere gli ordini del capo»

Shearer serra la mascella, «Ma io non—»

«Fratellone»

Jude indietreggia. Bobby sembra sorpreso dalla reazione. La sua voce. Quella voce.

Quando si volta la sua sorellina lo sta fissando, gli occhi d'acciaio resi scuri dalla rabbia.

La mente di Jude come terra ghiacciata sotto la neve invernale.

Oh. Ehi. Ciao, pensa, intorpidito, le sue ossa cantano. Mi sei mancata. Mi sei mancata. Mi sei mancata.

«Cosa ci fai tu qui, sei venuto a spiarci per caso?» Celia sibila, ruvida, come un dente scheggiato. Non si accorta di Bobby e Jude le dà le spalle. Voltandosi, sentendosi completamente fuori dalla sua profondità. Per quanto avesse sperato... non riesce, non può—

«Dove credi di andare?»

Lei gli afferra la mano, trattandolo. E Jude sente qualcosa nel suo stomaco affondare: lo stesso istinto di sempre, il profumo confortante, la familiarità intessuta nel suo sangue che dice famiglia. famiglia. famiglia.

Ignora anche quell'istinto.

«Lasciami» dice. Non urla, comanda. C'è una differenza. «Per quanto mi riguarda io e te non abbiamo niente da dirci»

Ed eccolo lì, solo il più piccolo incrinamento nella sua voce. L'inasprimento delle sue parole. Il tradimento di un sentimento più profondo.

Perché è la sua sorellina, sempre la sua sorellina. E lui è stato creato per tenerla al caldo. Tenerla al sicuro.

Ma non può.

Quindi, invece, se ne va.


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In una delle tante sessione di terapia per cui suo padre paga una quantità esorbitante di denaro, sperando forse che lo trasformino nel figlio carismatico che ha sempre desiderato, il suo terapeuta gli disse che dietro alla maschera da duro e sicuro di sé, Jude si odiava.

Crede che abbia aggiunto anche qualcosa sull'essere autodistruttivo fino al limite della patologia, ma potrebbe sbagliarsi. Non è che presti mai particolare attenzione.

Restare fermo per troppo tempo nello stesso posto gli fa prudere la pelle. Coglie tutto troppo in una volta ed è come se un milione di ragni gli si arrampicassero addosso.

Vuole essere in movimento in qualche modo, ma la situazione vuole che stia fermo. E come vinci quando è la tua volontà contro quella del tuo corpo?

Non crede che il terapeuta abbia ragione, comunque, anche se non è del tutto certo su quale parte.





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«A quanto pare ci siamo montati un po' la testa. Adesso ci permettiamo pure di esprimere opinioni sul mio operato, mh? Ho capito bene?»

Ray Dark ha questo trucco incredibile, in cui non alza la voce, ma in qualche modo riesce a far sembrare qualunque cosa tu stia facendo così patetica e stupida che ti senti subito come se fossi stato scuoiato. Nudo ed esposto e ridicolo.

«No, si sbaglia signor Dark la mia non è un opinione»

Il signor Dark inarca il sopracciglio: «Allora diciamo una critica. Tu non vuoi che la Raimon vinca il torneo, vero Jude?»

Che è una domanda stupida, ovviamente. Jude non vuole che vincano. Jude non vuole che nessun altro vinca oltre lui.

Eppure.

Non prova alcun piacere nello sconfiggere un uomo che non sa reagire. Un uomo che non riesce nemmeno a inginocchiarsi.

Dark gli sorride e sembra uno squalo. «Sta tranquillo non sono stato certo io a ordinare a Wintersea si sabotare l'autobus della scuola. Io gli ho semplicemente detto di fare il possibile per impedire alla sua squadra di disputare quella finale»

Jude stringe i denti «In ogni caso non lo trovo giusto

Gli occhi del signor Dark diventano freddi. Non che all'inizio fossero stati particolarmente calorosi. «Puoi garantirmi che vincerete la finale?»

C'è una nuova violenza nella sua postura e Jude lo fissa, sentendosi improvvisamente freddo. Arti pesanti.

Fratellone.

«Io—»

«NE SEI SICURO AL CENTO PER CENTO, SENZA OMBRA DI DUBBIO?»

Sta urlando, ora, scattando in avanti, la sua ombra rimpiazza la stazza che gli manca. È più grande di suo padre, ora, più grande di chiunque altro.

Jude resta lì e lo fissa.

Passano alcuni istanti di teso silenzio prima che Dark si raddrizzi.

L'aria tra loro è molto tranquilla, improvvisamente e Jude sta in piedi, con le scosse di assestamento di quelle parole che gli attraversano il cranio, il cervello.

Si sente disormeggiato, una barca tagliata dall'ancora, un pallone senza corda. Spogliato, un coniglio scuoiato. Un pesce eviscerato. Vuoto.

«Lascia che ti dica una cosa, Jude.» dice, i suoi occhi hanno già quello sguardo lontano che significa che non ascolta quasi più. Già complottando. Reti che si intricano. «Se vuoi essere certo della vittoria devi ottenerla prima ancora di scendere in campo. Questo è quello che un grande leader fa. Quindi d'ora in poi ti limiterai a eseguire i miei ordini senza discutere. Non è tuo compito pensare.»





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Bobby ha otto anni e odia Erik Eagle. Non lo sa, ancora. Né sarà grado di nominare la sensazione almeno per qualche altro anno, ma lo odia.

Sembra innaturale, una specie di parassita che mette radici nel suo cuore. Perché Erik è suo amico. Il suo migliore amico, anche se non sa bene perché. Anche se non sa né saprà mai cosa abbia fatto per meritarselo.

Il suo universo si è fissato fondamentalmente dal momento in poi in cui si sono stretti la mano, eppure c'è qualcosa – qualcosa di nebuloso, oscuro e aspro, che si muove da qualche parte nel suo petto quando lo guarda. E Bobby non riesce a farlo andare via.

Perché Erik Eagle è grande, enorme. Come un sole al centro di un universo che ogni persona nella stanza può sentire.

Entra in un posto e tutti girano intorno a lui come pianeti in orbita, esclamando e sorridendo larghi e luminosi, passandogli una mano sui capelli e dicendo che non riesce a credere a quanto sia intelligente, bravo, talentuoso.

E Bobby è proprio dietro di lui, perché finalmente, finalmente è riuscito a realizzare una scivolata perfetta. Si è esercitato per anni, e oggi finalmente ce l'ha fatta.

Si è buttato e ha rubato palla e l'ha passata e loro hanno vinto.

Erik ha vinto.

Erik che sorride e assorbe tutto come una spugna, tutti i sorrisi e le esclamazioni e l'orgoglio. Erik che non ha bisogno di niente per essere guardato.

Erik che Bobby ama. Lo fa, davvero.

Ma ora lo odia, lo odia, lo odia...






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Bobby ha ancora otto anni il giorno in cui Erik muore.

Loro due seduti sul ciglio della strada con Silvia, la vicina che sorride sempre e porta i biscotti. La vicina che fa sempre arrossire Erik così, così tanto.

E' lei che sta parlando, la guancia poggiata sul ginocchio mentre osserva Erik palleggiare, anche da fermo, anche da seduto. Gli occhi grandi.

«Dimmi Erik, cosa ti piacerebbe fare quando sarai grande?»

«Io?» Erik chiede, piegando la testa di lato mentre scoppia in un sorriso. Questa è sempre stata la sua domanda preferita: «Il mio sogno è andare a perfezionarmi in brasile per giocare nel calcio professionistico. Voglio diventare un campione e giocherò in squadre fortissime»

Silvia mormora in segno di approvazione, allargando le braccia «E tu Bobby?»

Lo stomaco di Bobby vacilla. Non ha una risposta altrettanto bella da dare, quindi dice: «Anche a me un giorno piacerebbe andare a giocare in Brasile, perché no»

Gli occhi di Silvia brillano di nuovo verso di lui, estasiati «Che bello, magari potrei venire anch'io a giocare con voi in Brasile!»

Bobby un po' tossisce e un po' ride, girando la testa per guardare il suo amico. Aspettando che dica qualcosa finché Erik non smette di palleggiare e ciò che dice è: «Bene, allora facciamo un patto, giocheremo a pallone per tutta la vita»

Allunga la mano verso di loro, lasciandola lì, sospesa. E sembra qualcosa di importante, qualcosa di grosso. Non sono bambini di otto anni sul prato, con lui.

Sono cavalieri intorno alla tavola rotonda.

Moschettieri.

Eroi.

Seguiranno il loro capo fino ai confini del mondo e torneranno indietro da re.

Così, le loro risate stanno ancora scuotendo l'aria quando vedono passare il cucciolo.

Occhi grandi, pelo soffice. E Erik deve, deve averlo, tirandosi in piedi per prenderlo, il suo sorriso enorme e il suo battito cardiaco che ancora gli svolazza nel petto.

Tutto è veloce, dopo.

Bobby guarda il cane scappare.

Guarda il mare diventa immobile, la vita passare, lo schianto delle ruote del camion sull'asfalto.

Guarda il mondo diventare un miscuglio di suoni e colori e odori fino a ridursi a nient'altro che un'unica scarpa insanguinata nella ghiaia.

Una bambina che chiama aiuto.

Non c'è molta agitazione da parte sua, dopo.

Nessun strappo di capelli, nessun pianto.

Alle 8:32 del 9 giugno 1998, il suo mondo si è offuscato e Bobby non è riuscito neanche a dire addio.



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È Nelly Raimon, prevedibilmente, a sistemare Wintersea.

La scena ha un che di soddisfacente.

La sua voce è ferma, calma. Determinata.

Ha lo stesso sguardo negli occhi che Bobby ha imparato a riconoscere dal tempo trascorso con lei durante gli allenamenti: freddamente analitico, pronto a scomporre qualsiasi cosa nelle sue parti componenti prima di metterle tutte insieme esattamente nel modo giusto, esattamente nel giusto ordine.

Rendendo tutto assolutamente perfetto senza neanche stropicciarsi la gonna.

«Vorrei verificare le condizioni dell'autobus che useremo per la finale, potrebbe per favore metterlo in moto?» chiede, le labbra che si arricciano mentre vede l'uomo andare nel panico, cercare scuse, tentare di tirarsene fuori senza sapere che lei lo tiene intorno al mignolo come un verme all'amo.

«Ehm, lo farei volentieri signorina Raimon ma vede— la mia patente non mi consente di condurre veicoli pesanti»

«Stia tranquillo professore, la nostra scuola sorge su un terreno privato e la patente non è necessaria. E poi non deve andarci in giro basta fargli percorrere qualche metro»

«Per la verità io—»

«Allora mi dica, c'è qualche altra ragione per cui non le va di farlo?»

No, ovviamente non c'è.

Nelly si sta evidentemente divertendo un mondo perché chiede loro di assistere. La lettera che Bobby le ha lasciato fuori dall'ufficio stretta fra le dita.

« Coraggio, professor Wintersea, avvii pure il motore.» dice, una volta che sono lì, un sorriso da gatto mentre osserva l'uomo star per ammalarsi.

«C'è qualcosa che non va?»

«Ehm, no, no, no.»

«Se è tutto apposto accenda il motore»

Lui ride. Ride quando lei tira fuori la lettera. Ride quando lo minaccia. Ride di puro esaurimento nervoso mentre si trascina fuori dal sedile del guidatore.

«Sì, è vero, ho sabotato i freni dell'autobus.» ammette, come se fosse così, così facile. Pulendosi le mani sui jeans come se ciò che ha fatto fosse lavabile come un po' di grasso per motori.

« E perché l'ha fatto?»

Questo è Mark, il povero, ingenuo Mark. Mai pensando che nessuno al mondo possa fare niente di male.

«E' semplice, per impedire alla vostra squadra di disputare la finale del campionato regionale.» lui risponde, gli occhi lattei, come se avessero perso il colore. Sorride, rivelando denti aguzzi. «C'è qualcuno che passerebbe dei guai seri nel caso di una vostra vittoria. Io ho soltanto agito per conto di questa persona.»

Axel fa un passo avanti, «E' forse il preside della Royal Academy?Pur di eseguire gli ordini ha messo a repentaglio l'incolumità dei suoi studenti?»

Bobby ha freddo, un brivido lungo la schiena. Ghiaccio nelle ossa.

La faccia di Wintersea si contorce «Voi ragazzi non sapete, voi non vi rendete conto, di cosa è capace quell'uomo.»

«La Raimon può fare a meno di persone come lei,» sibila Nelly, la faccia di marmo «Faccia conto che io stia parlando a nome del consiglio di amministrazione.»

«Mi licenzi pure. Le confesso che sono quasi sollevato di non essere più costretto a lavorare con questo peso sulla coscienza.» lui sorride. E la sua voce è... cambiata. Facendo strisciare qualcosa di sinistro lungo la pelle di Bobby «Ma se crede che io sia l'unico infiltrato all'interno della vostra squadra di calcio si sbaglia di grosso, signorina Raimon.»

E poi, guardandolo. Accusandolo. Sentendosi il suo terrore sulla punta della lingua.

«Non è vero, caro il mio Bobby?»

Chiude gli occhi. Tutto è vorticoso. Si stanno mescolando con il cielo. Sono fatti di fumo.

Non è vero, Bobby non può essere una spia, no.

Dì qualcosa traditore

E noi che ci siamo fidati di te!

«State calmi!» questo è Mark, ovviamente , è sempre Mark. Si piazza davanti a lui davanti alla prova più evidente, dividendolo dagli altri. Prendendosi cura di lui anche dopo questo. «Cercate di riflettere prima di dire certe assurdità! State parlando di un amico che si è sempre impegnato al massimo per il bene della squadra! Avete giocato con lui per mesi! Ormai dovreste fidarvi di Bobby io— io mi fido.»

Lo guarda e gli sorride e Bobby non riesce a sopportarlo. Non riesce.

Mi dispiace.

Mi dispiace.

Cazzo non hai idea di quanto mi dispiace.

Sta correndo prima che lui riesca a fermarlo.









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Silvia lo trova al campo al fiume, il che non è una grande sorpresa. Conosce tutti i suoi nascondigli.

«Ehi, tu», gli sorride, i suoi occhi che lo trovano mentre si siede accanto lui.

Lui le spalle, senza guardarla, trascinando i piedi mentre guarda il tramonto.

Ci sono dei bambini, di sotto, e Silvia li osserva come se le facesse male.

«Ricordi quand'eravamo spensierati come loro?», sospira, gettando all'indietro la testa.

Bobby non risponde, stringendosi le ginocchia al petto. Non ha idea di perché lei sia qui né gli importa, davvero.

Non ha voglia di parlare con nessuno, neanche davanti a quei suoi occhioni da Bambi.

«Ti ho sempre invidiato, lo sai?», lei continua, dopo un momento, mentre il sole inizia a scendere sotto l'orizzonte, «Sei sempre stato molto più forte di me»

«Che cosa?" Bobby soffoca un respiro, metà frustrazione, metà completa incredulità. «Io? Più forte di te?»

Silvia lo osserva, le iridi dello stesso verde sporco del prato. «Dopo quel brutto giorno, quando Erik—»

Lei inspira, lasciando che il dolore le riempia i polmoni.

Le stelle saranno presto spente, sparse come lentiggini nel cielo.

Espira.

«Non sono più riuscita a toccare un pallone», mormora, a metà tra sé, appoggiandosi sui palmi delle mani. «Tu se non altro sei riuscito a mantenere quella nostra vecchia promessa mentre io...» lei gli sorride, la tristezza danza nei suoi occhi. «Non sono mai stata abbastanza tenace»

Bobby si limita a fissarla con aria vuota, incerto su cosa dire; ma Silvia non sembra preoccuparsene. È sempre stata abbastanza abile nel portare avanti conversazioni unilaterali.

«Lo sai, in certe cose Mark mi ricorda moltissimo Erik» dice, una risata che le scappa dal petto come se non riuscisse a evitarla, «A volte è proprio buffo, sai? Lui giocherebbe sempre, col sole, con la pioggia, ovunque, riesce sempre a diverirtirsi. Quel ragazzo è proprio identico al nostro amico»

«Invece» lui replica, prima di riuscire a fermarsi, prima di poterci pensare meglio «Mark è molto diverso da Erik.»

Silvia piega la testa verso di lui, guardandolo con curiosità.

«Ho vissuto per anni all'ombra di Erik e lui è sempre stato due passi avanti a me. Per quanti sforzi facessi non riuscivo a stargli dietro. Invece con Mark è diverso, sai? Lui corre al mio fianco. Con quel ragazzo accanto a me penso che potrei arrivare anche in capo al mondo.»

«Gli vuoi molto bene» Silvia lo guarda, con la coda dell'occhio, e Bobby coglie qualcosa di agrodolce nel modo in cui lo dice.

Lei ed Erik sono cresciuti come alberi con i tronchi arricciati insieme, i rami intrecciati.

Non crede che offendere la sua memoria davanti a lei sia ciò di cui abbia bisogno ora, ma d'altronde, Bobby di scelte di vita sbagliate ne ha fatte parecchie.

«Certo» dice, come se lo avesse detto altre cento volte prima. Come se fosse ovvio. Perché infondo lo è. «Ma adesso lui e gli altri della squadra mi detesteranno»

«Questo dovresti lasciarlo decidere a lui, non credi?» Silvia alza le spalle, indicandogli qualcosa dietro di sé con un gesto vago delle dita.

Mark Evans è lì, la palla sotto braccio.

Non ha ancora smesso di sorridere.

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